STORIE D'ALTRI TEMPI
Luigi Capelli, amato
professore di lettere al Liceo Alessandro Volta di Milano negli anni 60, ma
anche poeta e critico letterario al Corriere della Sera, ci assegnò un giorno
questo tema in classe: La storia
maestra di vita. Dopo un breve momento di imbarazzo (allora pensavo
infatti che fosse la filosofia la materia più adatta a darci insegnamenti di
vita) mi balzarono alla mente due fatti storici che mi sembravano
particolarmente significativi e tra l’altro ben vivi nel ricordo degli studenti
di sempre per la loro peculiarità e lo spessore morale dei protagonisti.
Il primo episodio di
cui decisi di parlare si svolgeva durante la guerra tra Roma e Albalonga (650 a.C.) dove i
due re (a Roma regnava Tullio Ostilio e ad Albalonga Mezio Fufezio) concordarono
di rinunciare al proseguio del bagno di sangue tra i due eserciti e di dirimere
le loro questioni territoriali affidando ad alcuni valorosi guerrieri (tre per
parte) il compito di risolvere, in un duello alla spada all’ultimo sangue, ogni
controversia. Tito Livio ci racconta che Roma scelse tre gemelli, figli di
Publio Orazio (i fratelli Orazi), e Albalonga altri tre gemelli, i fratelli Curiazi.
Il combattimento
prese subito una piega favorevole ad Albalonga: due Orazi vennero rapidamente
uccisi e il terzo, in chiara difficoltà, decise di ricorrere all’astuzia e
fingere una fuga verso Roma. I tre Curiazi, nella rincorsa del sopravvissuto,
stanchi, feriti e sempre più distanziati fra di loro vennero affrontati e uccisi
uno dopo l’altro dal terzo Orazio che di volta in volta si fermava
improvvisamente, sorprendendoli. La vittoria degli Orazi segnò la vittoria di
Roma che così sottomise Albalonga. Gran parte della popolazione sconfitta trovò
in seguito cittadinanza a Roma che aveva bisogno di rimpolpare il proprio
esercito. Tra questi i membri della gens Quinctia, importante famiglia patrizia
di Albalonga.
I testi di storia hanno
sempre sottolineato e privilegiato, in questo episodio, l’intelligente
strategia e la furbizia del terzo dei fratelli Orazi che aveva saputo come sopperire
all’inferiorità numerica che si era trovato a fronteggiare. Io invece avevo
trovato e trovo ancora che l’importanza e il vero insegnamento di questo fatto
storico fosse lo straordinario senso di responsabilità dei due re che decisero
di dirimere i loro contrasti cercando di evitare un enorme e inutile bagno di
sangue tra i loro sudditi.
Evidente il contrasto
tra questo atteggiamento responsabile e le decisioni sanguinarie che, 2500 anni
dopo, provocarono le guerre mondiali che hanno caratterizzato il secolo scorso
con decine di milioni di morti. Con l’ingenuità del giovane studente, sviluppai,
nell’elaborazione del tema, l’ipotesi di un accordo fantastorico tra la
Germania da una parte e Francia e Gran Bretagna dall’altra, per dirimere le
controversie politiche e territoriali di allora, accordo che avrebbe potuto
cambiare le sorti del mondo, facendo affrontare sulla pedana i loro migliori
spadisti usciti dalle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Ma, tornando
all’episodio degli Orazi e dei Curiazi, dagli Albani sconfitti venne accolta a
Roma, tra le altre, concedendole la cittadinanza, la Gens Quinctia, dove
avrebbe in tempi successivi avuto luce e poi spiccato, per intelligenza e spessore
morale, un certo Lucio Quinzio, detto Cincinnato per via della capigliatura
riccioluta. E fu proprio il famoso episodio storico riguardante Cincinnato che sembrava
suggerirmi insegnamenti di vita che in questi giorni appaiono, tra l’altro, di
grande attualità, a impormi lo svolgimento appassionato della seconda parte del
tema.
Lucio Quinzio nacque
a Roma nel 520 a.C. Uomo dai costumi semplici e austeri, si dedicò per la
maggior parte della sua vita, con riconosciuta abilità, alla gestione agricola dei
poderi di famiglia. Nel 460 a.C. gli vennero conferite importanti cariche
politiche per via delle unanimamente riconosciute doti morali e intellettuali,
cariche che presto abbandonò per tornare a dirigere con rinnovata passione le sue
attività agricole che riteneva più consone alla sua natura.
Nel 458 a.C. i Romani
attraversavano un momento di estrema gravità. Le tensioni tra patrizi e plebei
avevano indebolito lo stato mentre gli Equi, popolo montanaro che risiedeva
nelle regioni povere dell’attuale Abruzzo, scesi nella zona attorno a Tivoli e
conquistata Preneste, minacciavano ormai la stessa Roma. Il console Lucio
Minucio, cercando di contrastarli, rimase improvvisamente circondato e
assediato, senza vie di scampo, nel suo accampamento militare sotto il monte
Algido. La situazione aveva raggiunto livelli drammatici quando il Senato
decise all’unanimità di richiamare e nominare dittatore proprio Cincinnato,
l’unico romano che sembrava possedere l’energia e il prestigio necessari per
affrontare la drammatica situazione. Furono allora mandati dei messi a Prata
Quinctia dove Cincinnato stava arando la sua terra per implorarlo di tornare alla
sua Roma in pericolo e accettare la dittatura e il comando dell’esercito per correre
a liberare le truppe assediate e salvare la città. Cincinnato, resosi conto
della gravità del momento, pronto a sacrificarsi per il bene della Patria,
accettò l’offerta e tornò a Roma, attraversando il Tevere con una barca a nolo.
Al suo ritorno venne acclamato dalla maggior parte dei Senatori e anche dai
Tribuni della Plebe, malgrado questi ultimi giudicassero eccessiva e temibile l’autorità
conferitagli.
Subito dopo il suo
rientro a Roma Cincinnato elaborò rapidamente una strategia militare fondata
sulla sua esperienza maturata nei campi. Ordinò che tutti gli uomini validi si
presentassero armati di archi, frecce e lunghi pali. Un paio di giorni dopo l’esercito
che si era così formato giunse presso il campo nemico nella valle sotto il
monte Algido. Qui, durante la notte, scavò una fossa profonda intorno alla quale vennero
piantati migliaia di pali: una palizzata invalicabile che rinchiuse gli Equi nel
loro stesso campo. Allo spuntare del giorno successivo gli Equi, accortisi
dello stratagemma nemico, tentarono di scardinare la gabbia in cui erano stati imprigionati,
ma divennero oggetto di fitti lanci di frecce che li costrinsero ad arrendersi.
Cincinnato li portò prigionieri a Roma insieme al loro comandante Gracco Clelio
e qui gli fu tributato il trionfo.
La carica di
dittatore poteva durare fino a sei mesi senza che nessuna autorità potesse
farla decadere. Cincinnato, pur tirato per la toga sia dalle varie fazioni del
Senato che dalla plebe, declinò qualunque carica politica per la quale non si
sentiva particolarmente adatto, rifiutando altresì onori e ricompense di vario
tipo. Dopo un paio di settimane dalla vittoriosa azione militare decise di
ritornare da privato cittadino ai suoi campi con la semplice soddisfazione per
il dovere compiuto e per aver potuto salvare la sua città.
Anche in questo caso
non mi sembrava fosse l’astuta strategia militare adottata da Cincinnato a
insegnarci qualcosa di importante, bensì la virtuosa modestia con cui, una volta
assolto con successo il compito che la Patria gli aveva chiesto, decise di
tornare a svolgere l’attività che gli era così cara, la sola di cui riconosceva
la propria competenza, dichiarandosi comunque sempre disponibile, immaginavo, a
dare il proprio contributo alla Patria qualora si fosse ancora drammaticamente
reso necessario.
Un esempio di
modestia, consapevolezza dei propri limiti e integrità morale che ci appaiono
così lontane dalla realtà che ci viene proposta in questi giorni e dagli uomini
che la rappresentano.
Cincinnato. Un uomo
d’altri tempi.