2013/03/08

 
STORIE D'ALTRI TEMPI
 

Luigi Capelli, amato professore di lettere al Liceo Alessandro Volta di Milano negli anni 60, ma anche poeta e critico letterario al Corriere della Sera, ci assegnò un giorno questo tema in classe: La storia maestra di vita. Dopo un breve momento di imbarazzo (allora pensavo infatti che fosse la filosofia la materia più adatta a darci insegnamenti di vita) mi balzarono alla mente due fatti storici che mi sembravano particolarmente significativi e tra l’altro ben vivi nel ricordo degli studenti di sempre per la loro peculiarità e lo spessore morale dei protagonisti.
Il primo episodio di cui decisi di parlare si svolgeva durante la  guerra tra Roma e Albalonga (650 a.C.) dove i due re (a Roma regnava Tullio Ostilio e ad Albalonga Mezio Fufezio) concordarono di rinunciare al proseguio del bagno di sangue tra i due eserciti e di dirimere le loro questioni territoriali affidando ad alcuni valorosi guerrieri (tre per parte) il compito di risolvere, in un duello alla spada all’ultimo sangue, ogni controversia. Tito Livio ci racconta che Roma scelse tre gemelli, figli di Publio Orazio (i fratelli Orazi), e Albalonga altri tre gemelli, i fratelli Curiazi.
Il combattimento prese subito una piega favorevole ad Albalonga: due Orazi vennero rapidamente uccisi e il terzo, in chiara difficoltà, decise di ricorrere all’astuzia e fingere una fuga verso Roma. I tre Curiazi, nella rincorsa del sopravvissuto, stanchi, feriti e sempre più distanziati fra di loro vennero affrontati e uccisi uno dopo l’altro dal terzo Orazio che di volta in volta si fermava improvvisamente, sorprendendoli. La vittoria degli Orazi segnò la vittoria di Roma che così sottomise Albalonga. Gran parte della popolazione sconfitta trovò in seguito cittadinanza a Roma che aveva bisogno di rimpolpare il proprio esercito. Tra questi i membri della gens Quinctia, importante famiglia patrizia di Albalonga.
I testi di storia hanno sempre sottolineato e privilegiato, in questo episodio, l’intelligente strategia e la furbizia del terzo dei fratelli Orazi che aveva saputo come sopperire all’inferiorità numerica che si era trovato a fronteggiare. Io invece avevo trovato e trovo ancora che l’importanza e il vero insegnamento di questo fatto storico fosse lo straordinario senso di responsabilità dei due re che decisero di dirimere i loro contrasti cercando di evitare un enorme e inutile bagno di sangue tra i loro sudditi.
Evidente il contrasto tra questo atteggiamento responsabile e le decisioni sanguinarie che, 2500 anni dopo, provocarono le guerre mondiali che hanno caratterizzato il secolo scorso con decine di milioni di morti. Con l’ingenuità del giovane studente, sviluppai, nell’elaborazione del tema, l’ipotesi di un accordo fantastorico tra la Germania da una parte e Francia e Gran Bretagna dall’altra, per dirimere le controversie politiche e territoriali di allora, accordo che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo, facendo affrontare sulla pedana i loro migliori spadisti usciti dalle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Ma, tornando all’episodio degli Orazi e dei Curiazi, dagli Albani sconfitti venne accolta a Roma, tra le altre, concedendole la cittadinanza, la Gens Quinctia, dove avrebbe in tempi successivi avuto luce e poi spiccato, per intelligenza e spessore morale, un certo Lucio Quinzio, detto Cincinnato per via della capigliatura riccioluta. E fu proprio il famoso episodio storico riguardante Cincinnato che sembrava suggerirmi insegnamenti di vita che in questi giorni appaiono, tra l’altro, di grande attualità, a impormi lo svolgimento appassionato della seconda parte del tema.
Lucio Quinzio nacque a Roma nel 520 a.C. Uomo dai costumi semplici e austeri, si dedicò per la maggior parte della sua vita, con riconosciuta abilità, alla gestione agricola dei poderi di famiglia. Nel 460 a.C. gli vennero conferite importanti cariche politiche per via delle unanimamente riconosciute doti morali e intellettuali, cariche che presto abbandonò per tornare a dirigere con rinnovata passione le sue attività agricole che riteneva più consone alla sua natura.
Nel 458 a.C. i Romani attraversavano un momento di estrema gravità. Le tensioni tra patrizi e plebei avevano indebolito lo stato mentre gli Equi, popolo montanaro che risiedeva nelle regioni povere dell’attuale Abruzzo, scesi nella zona attorno a Tivoli e conquistata Preneste, minacciavano ormai la stessa Roma. Il console Lucio Minucio, cercando di contrastarli, rimase improvvisamente circondato e assediato, senza vie di scampo, nel suo accampamento militare sotto il monte Algido. La situazione aveva raggiunto livelli drammatici quando il Senato decise all’unanimità di richiamare e nominare dittatore proprio Cincinnato, l’unico romano che sembrava possedere l’energia e il prestigio necessari per affrontare la drammatica situazione. Furono allora mandati dei messi a Prata Quinctia dove Cincinnato stava arando la sua terra per implorarlo di tornare alla sua Roma in pericolo e accettare la dittatura e il comando dell’esercito per correre a liberare le truppe assediate e salvare la città. Cincinnato, resosi conto della gravità del momento, pronto a sacrificarsi per il bene della Patria, accettò l’offerta e tornò a Roma, attraversando il Tevere con una barca a nolo. Al suo ritorno venne acclamato dalla maggior parte dei Senatori e anche dai Tribuni della Plebe, malgrado questi ultimi giudicassero eccessiva e temibile l’autorità conferitagli.
Subito dopo il suo rientro a Roma Cincinnato elaborò rapidamente una strategia militare fondata sulla sua esperienza maturata nei campi. Ordinò che tutti gli uomini validi si presentassero armati di archi, frecce e lunghi pali. Un paio di giorni dopo l’esercito che si era così formato giunse presso il campo nemico nella valle sotto il monte Algido. Qui, durante la notte,  scavò una fossa profonda intorno alla quale vennero piantati migliaia di pali: una palizzata invalicabile che rinchiuse gli Equi nel loro stesso campo. Allo spuntare del giorno successivo gli Equi, accortisi dello stratagemma nemico, tentarono di scardinare la gabbia in cui erano stati imprigionati, ma divennero oggetto di fitti lanci di frecce che li costrinsero ad arrendersi. Cincinnato li portò prigionieri a Roma insieme al loro comandante Gracco Clelio e qui gli fu tributato il trionfo.
La carica di dittatore poteva durare fino a sei mesi senza che nessuna autorità potesse farla decadere. Cincinnato, pur tirato per la toga sia dalle varie fazioni del Senato che dalla plebe, declinò qualunque carica politica per la quale non si sentiva particolarmente adatto, rifiutando altresì onori e ricompense di vario tipo. Dopo un paio di settimane dalla vittoriosa azione militare decise di ritornare da privato cittadino ai suoi campi con la semplice soddisfazione per il dovere compiuto e per aver potuto salvare la sua città.
Anche in questo caso non mi sembrava fosse l’astuta strategia militare adottata da Cincinnato a insegnarci qualcosa di importante, bensì  la virtuosa modestia con cui, una volta assolto con successo il compito che la Patria gli aveva chiesto, decise di tornare a svolgere l’attività che gli era così cara, la sola di cui riconosceva la propria competenza, dichiarandosi comunque sempre disponibile, immaginavo, a dare il proprio contributo alla Patria qualora si fosse ancora drammaticamente reso necessario.
Un esempio di modestia, consapevolezza dei propri limiti e integrità morale che ci appaiono così lontane dalla realtà che ci viene proposta in questi giorni e dagli uomini che la rappresentano.
Cincinnato. Un uomo d’altri tempi.

2012/09/05



MILANO, 11 SETTEMBRE


Milano, domenica 9 settembre 2012: sono le 15:30 nella sala riunioni di un ufficio signorile ( Haifa Commercial Bank, London , recita la targa in ottone sulla porta d’ingresso ) situato al primo piano di un antico palazzo di Via Gaetano Negri, a due passi da Piazza Affari.
Intorno a un grande tavolo rotondo in ciliegio finemente intagliato siedono cinque uomini. Uno di loro, il più anziano, prende la parola:
- Sabah al khayr. Mi auguro che Halima vi abbia accolto con la sua abituale cortesia, assegnando a ciascuno di voi il letto dove riposare e l’armadietto in cui riporre le vostre cose e i vostri vestiti. Sarà lei, inoltre, in questi pochi giorni che ci aspettano, a prepararvi i pasti e a fornirvi tutti i servizi di cui avrete bisogno. I nostri colloqui, da questo momento in poi, avverranno esclusivamente in inglese, così come esclusivamente in inglese vi dovrete esprimere in qualunque altra occasione si presenti. D’altra parte siete stati selezionati per questa missione non solo sulla base della vostra fedeltà alla causa e della vostra abilità ed esperienza operativa sul campo, ma anche per la vostra perfetta conoscenza della lingua inglese parlata e per il vostro aspetto fisico non sfacciatamente mediorientale.
Sto per consegnare a ciascuno di voi un passaporto inglese con le generalità che d’ora in poi vi identificheranno. Amjad : questo il tuo nuovo passaporto e Kevin Parker il nuovo nome. Mansur :sei ora Barry Fisher. Karim : diventi Vince Collins, mentre tu, Rashid, assumi il nome di Clarence Wilson.
Ora approfondirò con voi ogni singolo dettaglio riguardante la missione che vi attende e che, a grandi linee, vi è già stata illustrata, soprattutto per quanto riguarda le motivazioni che la promuovono, a Beirut, la scorsa settimana.
Milano è una città tipo all’interno dell’Europa Occidentale che ben si presta a rappresentare una civiltà cosmopolita e allo stesso tempo serva della cultura e dell’arroganza americana. L’azione che stiamo per intraprendere vuol essere allo stesso tempo lezione e monito per chi ha rapidamente dimenticato l’11 settembre di undici anni fa e il suo chiaro messaggio. Vediamo dunque insieme il piano operativo da concretizzare.
A Milano è stata realizzata, una cinquantina di anni fa,  una linea metropolitana, l’MM1 o linea rossa, che attraversa in senso longitudinale tutta la città passando per i principali centri del potere finanziario, distribuiti soprattutto tra Piazza San Babila e Piazza degli Affari, dove ha sede la Borsa italiana. Il traffico dei passeggeri, particolarmente intenso tra le 7:30 e le 8:30 del mattino, quando gli uffici del terziario cominciano a prendere vita, è oggi gestito da treni moderni a singola carrozza, della lunghezza di 104 metri e larghezza di 2,85. Come potete osservare in questo disegno ogni treno è equipaggiato con 12 porte di accesso su ognuno dei due lati ma, nel tratto che ci interessa, vengono aperte solo le porte sulla destra rispetto al senso di marcia durante la sosta sulle banchine delle singole stazioni ( ogni banchina è lunga 106 metri, giusto lo spazio per contenere un intero convoglio ). La distanza media tra stazione e stazione è di 600 metri e la frequenza dei treni, nei periodi e nelle stazioni di punta, è di 2,5 minuti circa. Ogni convoglio, in quei periodi, raggiunge una capacità di 1200 passeggeri. Scusatemi per quello che vi potrebbe sembrare un eccesso di dettagli, ma tutti questi numeri sono stati necessari per programmare con l’indispensabile accuratezza il nostro piano.
Per la mattina dell’ 11 settembre ciascuno di voi avrà in dotazione un abito di classe che ben si addice ad un uomo d’affari. Halima saprà scegliere con competenza le misure adatte e vi consegnerà inoltre una valigetta elegante ( tipo pilota di aereo, tanto per intenderci ) in grado di ospitare un esplosivo IED ( Improvvised Explosive Device ) molto potente ( TNT 128 ), equipaggiato con un sistema radio a corto raggio d’azione ( RFSD ) ad attivazione ritardata. Il ritardo sarà programmato a 15 secondi esatti che scatteranno nel momento in cui voi, uscendo dalla carrozza, premerete il pulsante applicato a una semplice scatoletta riposta nella tasca della vostra giacca.
Le entrate e le uscite delle stazioni non sono normalmente presidiate e non esiste nessun sistema di controllo del materiale e dei passeggeri che vi transita. Sarà dunque per voi un gioco da ragazzi introdurvi con valigetta al seguito. Per non dare nell’occhio entrerete, con il maggiore quotidiano finanziario in mano ( il sole 24 ore ),  in quattro stazioni diverse e consecutive e in quattro porte differenti equidistribuite sul treno e,  precisamente: Kevin nella stazione Pasteur, porta N.3 del convoglio, Barry in Piazzale Loreto ( dove confluiscono i passeggeri scesi dalla MM2 ), porta N.5, Vince in Piazzale Lima, porta N.8  e Clarence a Porta Venezia,  porta N.10. Dopo quest’ultima stazione il treno si ferma in  quella dei giardini pubblici ( Palestro ) e subito dopo a San Babila, dove entrerete in azione. Nel convoglio ciascuno di voi si terrà appoggiato alla porta di sinistra ( quella chiusa che fronteggia quella apribile ) posando con discrezione la valigetta per terra, contro la parete, fino all’ arrivo, dove abbandonerà la valigetta ( nessuno dei passeggeri, nella calca del momento, avrà modo di accorgersene ) e cercherà di uscire tra i primi..
Martedì mattina verrete accompagnati in automobile nei punti di partenza con congruo, ma non eccessivo anticipo . Kevin, il primo di voi, salirà sul treno delle 8.00 a Pasteur, per arrivare alle 8,15 nella stazione di San Babila dove  scenderete tutti contemporaneamente eccitando il sistema di attivazione dell’esplosivo. Vi rimarranno allora 15 secondi esatti per dirigervi verso l’uscita della metropolitana senza essere coinvolti nell’esplosione. Vi avvierete quindi con calma a piedi in quattro direzioni diverse, cercando di camminare in mezzo alla folla ed evitando di percorrere i marciapiedi dove pullulano i vari sistemi di videosorveglianza, per ritornare poi separatamente in questo appartamento. Al sistema di controllo interno alla stazione sarà tolta per tempo l’alimentazione elettrica nella centralina presente nella piattaforma da parte… diciamo così, di un tecnico dell’Enel, la società energetica locale..
Le quattro violentissime esplosioni,  praticamente contemporanee, creeranno effetti sinergici davvero devastanti, proprio nel momento in cui tenteranno di salire sul convoglio gli ultimi passeggeri diretti a Piazza Affari. Un tornado di polvere nera rovente si espanderà rapidamente per tutta la stazione mentre dal treno devastato dalle fiamme brandelli di carne umana verranno scagliati in ogni direzione tra le urla laceranti dei passeggeri e di chi, ancora seduto sulle panchine in attesa del treno successivo, si sentirà morire tra violenti rigurgiti di sangue in un rapido processo di soffocamento.
Giornali e televisioni parleranno di un migliaio di morti e di un numero imprecisato di feriti gravissimi, riempiendo le case di immagini atroci, sangue, lacrime e interviste struggenti ai cittadini e ai pochissimi  sopravvissuti. Le autorità politiche e religiose di tutto il mondo vomiteranno esecrazioni a 360 gradi contro di noi  e accorate partecipazioni al dolore degli italiani.
Ma, forse, non tutto rimarrà come prima; forse qualcuno comincerà a sospettare che al di là degli spread, delle borse e della formula 1 c’è qualcosa di diverso che urla la propria presenza e pretende attenzione.
Nel pomeriggio di martedì ci ritroveremo intorno a questo tavolo dove vi saranno date le istruzioni necessarie per un ritorno a casa in sicurezza. Domani, lunedì , indossando abiti da turista, testerete il percorso un paio di volte in orari differenti. Resto comunque a vostra disposizione nelle giornate di oggi e domani per fornirvi tutti i chiarimenti che riterrete necessari, con particolare riferimento alle azioni da intraprendere in caso di improvvise e inaspettate difficoltà. Allah ma’ kum!-

- Ecco, Signor Ministro, mi sono permesso di disturbarla per mostrarle questo filmato amatoriale dove alcuni collaboratori della Questura di Milano che, da milanese doc, mi onoro di dirigere, si sono prestati, su mio invito, a interpretare il ruolo di attori e altri a realizzare regia e sceneggiatura nel modo più realistico possibile. Ritengo che  l’argomento proposto sia di drammatica attualità: le metropolitane delle nostra città, a differenza degli aeroporti, dove ci vengono sequestrate perfino le forbicine delle unghie,  sono totalmente indifese nei confronti di eventuali attacchi terroristici che potrebbero coinvolgere migliaia di cittadini. Sono fermamente convinto che sia indispensabile studiare, da parte del governo,  una seria strategia rivolta a minimizzare i rischi di eventi di questo genere che sulla carta sembrerebbero di semplice realizzazione. Ho voluto girare questo filmato proprio per dare il necessario pathos e forza adeguata al problema e sollecitarne adeguatamente un serio approfondimento. I milanesi, ma non solo loro, aspettano con fiducia un vostro intervento efficace e convincente. Grazie dell’attenzione che certamente vorrete dedicarci. -
 

2012/07/24



TRILOGIA
( a Lisa )


Un rifugio sicuro
 
Il profumo della tua pelle
scivola su di me
lievemente
tra carezze
impalpabili
che percorrono
il tuo corpo acerbo
incontaminato e vivo
attente a non ferirlo
perché il sapore
di sogni mai sognati
di labbra mai baciate
scopra
lentamente
un orizzonte nuovo
perché la mia bocca
che dolcemente ti cerca
trovi
in te
un rifugio sicuro
per rinascere da te
per rinascere
con te.    


Il piumino bianco
 
Vento di maestrale
sussurri di pioggia sui lucernari
e il tuo piumino bianco.

 
Fragile
Fragile
come un germoglio di pesco
sfiorato
e tormentato
da una brezza indecisa
fragile
nel tuo abbandono
in sogni nascenti
tra le mie braccia attente
fragile
quanto è forte
il tuo saper credere
ancora
e trovare
un palpito azzurro
       in un sussurro.      
                                                                 


IL CAMPER DI ORESTE


Oreste è mio cognato, il marito di Rita, mia sorella. Un uomo davvero speciale, farcito di dogmi e ricco di certezze. Questo è l’ oreste-pensiero  con cui affligge chiunque gli capiti a tiro :
 - Ma lo sapete che siamo circondati da bande di ladri, a partire da banche e assicurazioni,  per continuare con negozianti, meccanici, idraulici ed elettricisti?  Tutti vogliono rubarci i soldi. Per sopravvivere dobbiamo evitare di dipendere dagli altri e imparare a fare da noi. Tutto. E per fare tutto da noi dobbiamo saper prevedere, organizzare e attrezzarci. –
In virtù di questo assioma, Oreste gironzola perennemente, nei suoi momenti liberi, tra ferramenta, rigattieri e sfasciacarrozze, raccattando a buon prezzo ( dice lui ), dopo estenuanti trattative, tutto quello che trova: viti, bulloni, squadrette, cacciaviti, tubi, pneumatici, valvole, lampadine e quant’altro che prima o poi,  potrebbe tornargli utile.
Per questo nel condominio dove abita ha acquistato tre box: nel primo viene parcheggiata la Panda di Rita ( Oreste, nonostante numerosi tentativi, non è mai riuscito a prendere la patente );  nel secondo vengono immagazzinati gli oggetti di volta in volta raccolti, che dispone in perfetto ordine su enormi scaffali acquistati in un’asta fallimentare, oggetti che cataloga con software sofisticati,  scaricati da internet,  e rigoroso puntiglio;  nel terzo, infine, troneggia il suo camper, come lui chiama un vecchio e sgangherato Fiat 238,  acquistato e poi attrezzato alla meglio  per cucinare e dormire in una zona letto sopraelevata.
Ha  trascorso numerosi weekend, cinque anni fa,  per farlo, disfarlo e rifarlo di nuovo ( difficilmente mio cognato  riesce a concludere qualcosa al primo tentativo ), utilizzando molti dei reperti immagazzinati nel box numero due:  l’aveva perfino tappezzato con piastrelle di sughero eleganti e coibentanti ( diceva lui ) e questo lavoro ha rappresentato sicuramente il momento più impegnativo:  le piastrelle erano difficili da collimare sulla parete irregolare del 238, e quando Rita glielo fece notare, a lavoro completato, non ci pensò due volte: creò nervosamente un impasto di carta e colla che infilò con le dita e con le unghie in tutti gli interstizi.
Il camper ( continuiamo a chiamarlo così ) costituisce, dopo i programmi televisivi della domenica pomeriggio,  l’unica loro fonte di svago, e ben si concilia con i pallini  ossessivi di Oreste che quando non lavora ( come capo reparto in via di pensionamento) e quando non è impegnato  nella raccolta di ferramenteria varia si dedica a tempo pieno, praticamente una volta al mese,  in quella che lui chiama la manutenzione del mezzo, là, nel box numero tre. Perché una volta al mese Rita ed Oreste partono per un weekend al mare e non devono correre rischi. Al volante del camper c’è sempre e soltanto, ovviamente,  la piccola e fragile sorella, ma è Oreste in realtà a guidare, impartendole continuamente istruzioni precise farcite di rimproveri e commenti ironici :
- Ritaaa! Quante marce ha il furgone? Quattro, vero? E allora perché ne usi solo tre? –
- Ritaaa! Se alla rotonda devi girare a sinistra, non pensi che sia ora di accostare?-
- Ritaaa! Non vedi che c’è una fila di macchine ferme? Devi proprio inchiodare all’ultimo metro?-
- Ritaaa! Ritaaa! Ritaaa! -
Ogni volta che Rita e Oreste giungono in un campeggio con il loro camper, ( Rita al volante ma Oreste che dirige ), tutti gli ospiti che li conoscono accorrono festosi: è un grande avvenimento per tutti.
Dovete sapere che Oreste ha il terrore del fuoco. Una volta entrati nel campeggio lui scende dal camper per aggirarsi circospezioso tra alberi, tende e roulotte, alla ricerca della piazzola giusta, quella che consenta molteplici vie di fuga in caso di incendio. La cerca a passi successivi, dirigendo Rita ora qua ora là, un po’ avanti e un po’ indietro, attraverso frenetici tentativi mentre elabora il piano di sicurezza su un quaderno ( un po’ come faceva il Mou quando era allenatore dell’Inter ).
Una volta individuato il sito bisogna verificarne l’efficacia. Oreste indica allora a Rita le vie di fuga principali, in funzione dell’intensità del fuoco e delle caratteristiche del vento ( maestrale, tramontana o scirocco ). A quel punto Rita, tornata al volante del 238, deve testarle tutte rilevandone i possibili intoppi, mentre Oreste calcola i tempi di evacuazione.
Ogni anno, agli albori della primavera, Rita e Oreste verificano nel dettaglio lo stato del loro camper. Anche quest’anno, nei primi giorni di marzo. Scesi nel box numero due hanno verificato la pressione dei pneumatici e la funzionalità delle valvole, utilizzando un vecchio compressore.  Quindi hanno ottimizzato lo stato della batteria, che Rita ha provveduto ad alimentare attraverso la presa di corrente del box e rabboccati acqua e olio. Una volta arrivati al controllo del serbatoio dell’acqua potabile, mentre Orazio lo smonta dal suo supporto, Rita lamenta un gocciolio anomalo.
- Normale, tutto normale, Rita, è solo un po’ di condensa! - bofonchia Oreste.
Quando l’acqua arrivò a coprire le ballerine di Rita anche Oreste si accorse che c’era qualcosa che non andava: infatti una piccola crepa si stava allungando vistosamente nel fondo del serbatoio.
- Accidenti! Il serbatoio ha tirato le cuoia, ma non ho assolutamente voglia di farmi derubare dal Bertoni: quello  sarebbe capace di chiedermi duecento euro e passa per darmene uno usato. Facciamo una cosa, Rita: andiamo all’ ipermercato e ci compriamo cinque o sei taniche vuote da dieci litri; avremo così acqua sufficiente per lavarci e cucinare gli spaghetti in un weekend, e poi, in un campeggio l’acqua non manca mai -.
Detto fatto. Rita tira fuori la Panda dal box numero uno e insieme raggiungono Auchan, il più grande ipermercato della zona. Giunti nel settore dedicato al fai-da-te ecco apparire le taniche per alimentari: dieci euro l’una. – Però! - Brontola Oreste, e aggiunge: - Dài, Rita, facciamoci intanto un giro di perlustrazione.-
Arrivati nel settore dei detersivi Oreste sobbalza: - Ritaaa ! Guarda! C’è l’ammorbidente in saldo, con lo sconto del settanta per cento !!! Solo cinque euro per una tanica da dieci litri ! –
Fu così che Rita e Oreste acquistarono dieci taniche da dieci litri di ammorbidente, ed è da allora che tampinano amici e parenti per scambiare, alla pari, naturalmente, una tanica piena di ammorbidente con una vuota.
Era l’estate di un anno fa. Un Lunedì mattina,  tornando dal solito camping di Viareggio ( non fanno mai lunghi viaggi per paura che il 238 decida improvvisamente di tirare le cuoia ), una volta giunti alla base della Cisa, prima della salita, Oreste si accorge che il furgone tira vistosamente a sinistra: - Ritaaa! Vuoi stare più a destra e andare più dritta, per favore?  Ritaaa! –
In barba alle strigliate del marito, Rita non riesce più a governare il furgone che si è messo a dirigersi dove vuole. All’urlo disumano di Oreste Rita reagisce accostando e fermandosi nella prima piazzola disponibile. Una volta scesi si accorgono che il pneumatico anteriore sinistro si è quasi totalmente sgonfiato.
- Dev’essere la valvola!  Lo sapevo! Troppo vecchia! –  sentenzia Oreste che aveva sì comprato una valvola usata di riserva, ma l’aveva anche lasciata nel box numero due, accuratamente posizionata e catalogata, ma scarsamente utile nell’occasione.
- Cosa facciamo? Tiriamo avanti fino alla prossima stazione di servizio? – domanda Rita con voce tremolante.
- Ma quale stazione di servizio!  Non lo sai che quella è gente pronta soltanto a portarci via i soldi?- risponde Oreste saltando con balzo scarsamente atletico nel furgone per uscirne subito dopo con in mano una pompa a pedale, quella normalmente utilizzata per gonfiare il canotto di gomma di due metri e mezzo con cui erano soliti affrontare il mare di Viareggio.
Oreste decide i turni, in odore di perfetta par condicio: dieci pedalate lui, dieci pedalate lei. Dieci pedalate Oreste, dieci pedalate Rita e così ogni mezzora, il tempo imposto dal pneumatico per tornare a sgonfiarsi. Fino a Milano.
Rita e Oreste hanno un figlio, mio nipote Palmiro ( nome caparbiamente voluto da Oreste, per via delle sue convinzioni politiche, nonostante le suppliche di Rita ). Poco più che trentenne, laureato in architettura, vive con i genitori e fa il tassista perché, dice, questo lavoro lo fa sentire libero. Palmiro è la fotocopia di suo padre, il suo clone. Cinque anni fa decise di comprarsi una casa,per andare a vivere da solo. Gli piaceva una specie di casolare tutto da ristrutturare, ma, potendo attingere al box numero due del padre era convinto di poterne tirare fuori una reggia a basso costo. Fu così che …
Però questa è un’altra storia e avrò modo di raccontarla un’altra volta …
.

2009/09/28



ASALIA

- Mi voglia perdonare l’intromissione, gentile signora, ma purtroppo Giampiero in questi casi non usa guardare in faccia nessuno. Quando la trattoria si riempie comincia ad abbinare i clienti a suo insindacabile giudizio. Così questa volta le è capitato accanto un tipo come me. Cercherò di occupare il minor spazio possibile su questo tavolo microscopico che ci è stato imposto e di non esserle di sgradevole compagnia: godo fama di chiacchierone ma non so se questo la possa rallegrare.

No, non ho ancora letto il Corriere. Ho dato solo un’occhiata ai titoli. Le solite cose … il Berlusca con i suoi eccessi erotici e non, la guerra in Afghanistan, gli sbarchi dei clandestini, gli incendi in Sardegna, il caldo nelle città, le code sulle autostrade, i morti del sabato sera … I giornali potrebbero fotocopiare le pagine di un anno prima senza che nessuno se ne accorga. I palinsesti dei quotidiani sono sempre gli stessi: una noia infinita. Mai un guizzo innovativo, un’idea che porti i lettori nel giornale anziché viceversa. E così i blog su internet acquistano sempre più audience ( adesso si dice così ), perché sanno far partecipe la gente con la loro vivacità e la loro comunicazione bidirezionale. Presto sostituiranno i quotidiani, vedrà … Alberoni? Sì, certo, sa uscire dai noiosi canoni della cronaca e della politica, ma quante ovvietà nei suoi dogmi, e sempre le stesse, da più di vent’anni, tutti i Lunedì, sul Corsera!
Non sarà mica una giornalista, vero? Ah, meno male. Posso continuare, allora?

A me piacerebbe che i giornali dedicassero più spazio ai lettori, alle loro storie, alle loro esperienze … Sa quanta gente sarebbe in grado di raccontarsi con proprietà di linguaggio e con argomenti di sicuro interesse per molti? Mi piacerebbe che i giornali permettessero confronti alla pari di storie, di idee e di considerazioni. Però non sono sicuro che la maggior parte di noi lo desideri veramente. Chi compra un giornale molto spesso vuole solo sentirsi dire quello che si aspetta di leggere e niente che possa affaticare la propria materia grigia e aggiornare o abbattere le proprie certezze, i propri dogmi. Sa, molte volte avrei desiderato scrivere al Corriere, ma ha mai dato un’occhiata alla posta dei lettori? Brevi banalità su politica e problemi di bassa economia o su particolari beghe di nessun interesse generale … Nessuno spazio per il racconto di storie realmente vissute che potrebbero appassionare i lettori. Io, per esempio, ne ho una interessante, anzi, un po’ misteriosa, che mi trascino dentro da tutta la vita, un episodio che non posso dimenticare.
Davvero le interessa conoscerla? Davvero vuole che gliela racconti?

A 26 anni avevo terminato gli studi universitari, il servizio militare e uno stage di sei mesi in Giappone presso una società che produceva le prime calcolatrici portatili. Tornato in Italia cominciai a cercare, a fatica, il mio primo lavoro, ma soprattutto cominciai a frequentare assiduamente Antonella, la figlia unica di importanti amici di famiglia. Era una ragazza molto bella e intelligente e aveva solo 18 anni. Il padre era un importante dirigente di una primissima banca di affari italiana e rappresentava un forte punto di riferimento e di appoggio finanziario per mio padre che gestiva una attività commerciale con un paio di società giapponesi di prim’ordine. Quest’uomo, fisicamente grande e grosso, era un assiduo frequentatore della sua parrocchia dove, durante la messa della domenica, si proponeva come lettore delle sacre scritture. Mi scusi, non sono dettagli inutili, poi certamente capirà.

L’uomo, insomma, incuteva soggezione su tutti i fronti ed era preoccupato della differenza di età tra me ed Antonella e del fatto che io non avessi ancora un lavoro tanto che, quelle poche volte che ci permetteva di uscire la sera, pretendeva che la riportassi a casa sempre prima delle undici, pena una sonora, pubblica e umiliante ramanzina.
Un giorno, era un sabato di Settembre, i suoi genitori decisero di andare a passare il fine settimana a Sanremo, dove avevano una casa. I miei genitori erano già a Stresa da giorni e così il mio appartamento di Milano era libero per offrirci con tranquillità la nostra prima notte d’amore. Passai a prenderla verso le sei di sera e la portai a casa mia dove mi misi a cucinare le poche cose che sapevo: spaghetti con sugo già preparato, pasticcio di patate con maionese e capperi ed infine frutta e vino a volontà. Terminata la semplice cenetta ci alzammo da tavola e ci infilammo, senza molti preamboli, nel mio letto. Saranno state le undici di sera, o poco più. Verso mezzanotte, non ricordo assolutamente per quale motivo, cominciammo a discutere. E poi a litigare. Verso l’una mi alzai e pregai Antonella di rivestirsi. L’avrei riaccompagnata a casa. La serata era malinconicamente finita. La prima notte d’amore nemmeno incominciata.
Salimmo in macchina e arrivammo davanti a casa sua. Sorpresa: l’automobile di suo padre era parcheggiata proprio lì davanti. I suoi genitori erano già tornati a Milano, non ho mai saputo per quale motivo, ed erano le due di notte. Terrore ma anche liberazione. Il giorno dopo ricevetti un cazziatone telefonico da sua mamma, ma cosa sarebbe accaduto senza quella misteriosa e assurda litigata? Cosa sarebbe accaduto se Antonella fosse tornata a casa la mattina dopo? E’ possibile allora, ho pensato, che ci sia davvero qualcuno, da qualche parte, che veglia su di noi? –

- Io credo proprio che sia possibile, caro Valerio … Questo è il suo nome, vero? Il suo racconto mi ricorda molto da vicino quello di un mio cliente. Aveva appena acquistato l’automobile nuova: molti cavalli per sentirsi più sicuro nei sorpassi ( così diceva ). Una sera d’autunno, dopo un incontro di lavoro, stava viaggiando su una strada a grande percorrenza, mi sembra in Toscana, o giù di lì, quando si trovò improvvisamente davanti un camion molto lento, su un medio pendio. I due sensi di marcia erano separati dalla doppia striscia continua, ma la tentazione del sorpasso era grande: nel buio non si vedeva alcun faro dall’altra parte e quel camion, lento e fumeggiante dava proprio fastidio. - Passo o non passo? Passo o non passo? – Si domandò più volte … Dopotutto aveva un bel po’ di cavalli a disposizione. Stava ancora sfogliando tranquillamente la margherita del destino quando nell’altra corsia, improvvisa e velocissima, scese un’altra macchina di grossa cilindrata. Sfrecciò in pochi centesimi di secondo di fianco alla sua e si allontanò sibilando. Bastava che il petalo sbagliato della margherita fosse stato colto e sarebbe stato uno scempio: un impatto frontale sicuramente violento e mortale. Il mio cliente non aveva potuto accorgersi dell’arrivo dell’altra vettura, i cui fari, in prossimità del dosso, avevano illuminato inutilmente il cielo, anziché la strada, dove risultavano invisibili.
E’ allora possibile, Valerio, che ci fosse stato davvero qualcuno, da qualche parte, a vegliare sul mio cliente? –
- Incredibile! Sa che è accaduto qualcosa di molto simile anche a me, trent’anni fa? –
- Davvero ? Dopo mi racconterà. Mi perdoni se intanto mi assento un attimo.-

Mi era davvero successa una cosa identica, trent’anni prima: BMW 320 nuova di pacca, sei cilindri, un casino di cavalli, statale che da Piombino porta a Civitavecchia ( l’Aurelia ) … una cosa proprio identica, il buio, il camion, il dosso … una coincidenza incredibile.

- Ma, Giampiero, dov’è finita quella graziosa signora che era seduta al mio tavolo ?
- Se ne è appena andata, Valerio, e ha pagato anche per te. Mi ha detto che non era la prima volta. Mi ha dato poi questo biglietto da consegnarti.-

“ Da sempre e per sempre. Asalia “
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2009/07/08



MACCHIA

 
Era la notte del 18 Gennaio, notte di pioggia e di vento. Nello storico allevamento di San Rossore, box numero 21, era nata una puledrina baia dalla conformazione molto esile, le orecchie lunghe ( - come quelle di un asino -, sussurrava qualcuno ) e una grande macchia bianca in mezzo alle fronte. Nasceva da una fattrice di rango, Matilde, e da un celebre stallone americano, Rockwell ( plurivincitore di corse al galoppo molto importanti nel Kentucky ), la cui monta era costata un occhio della testa. Venne chiamata Macchia, per via di quella grande goccia bianca tra gli occhi. Cercarono di venderla alle aste di Settembre ma senza successo: nessuna scuderia si mostrò interessata a quel mucchietto di ossicini.

Nel successivo mese di Marzo, Macchia aveva poco più di un anno, la proprietaria dell’allevamento, Lucia dei marchesi di Roccadimezzo, che nel frattempo l’aveva presa in grande simpatia perché sembrava assomigliarle, con quel carattere allegro e indipendente, la mandò presso la propria scuderia di Milano, dove l’aspettava il rito della doma. Non fu facile metterle morsi e sella: ci vollero numerosi giri del tondino al galoppo per sfiancarne la resistenza: Macchia era gracile e, diciamolo pure, bruttina. Ma aveva carattere. E che carattere!
La scuderia di San Rossore non usava far correre i propri cavalli prima dei tre anni di età: Macchia però avrebbe fatto eccezione: doveva cercare di guadagnarsi presto la sua biada e dimostrare senza indugio di meritarsi il ruolo di cavallo da corsa con i primi premi d’autunno: il Bimbi, il Primi Passi, o addirittura il Gran Premio dell’Avvenire: tutte corse in pista dritta per gli esordienti di due anni. Roberto, l’allenatore, non la vedeva di buon occhio. Non ci credeva.
E’ una brocca, lo si vede lontano un miglio – bofonchiava ogni mattina.

Dovete sapere che in una buona scuderia, come lo era quella di San Rossore, agli ordini dell’allenatore ci sono, oltre al fantino ufficiale che monta quasi esclusivamente in corsa, un certo numero di uomini di scuderia che allenano i cavalli ogni mattina ( passo, trotto, galoppo leggero o canter ) e lo stalliere, il cui compito è quello di riordinare tutti i box sostituendo la paglia gonfia di escrementi con quella pulita e riempiendo di acqua, biada e carote gli appositi recipienti a muro.
Il peggiore uomo della scuderia era Walter: una perfetta miscela di arroganza, insensibilità e cattivo carattere. Lo stalliere era Angelo: un giovane ragazzo sardo, figlio di un bravo fantino morto in corsa, pochi mesi prima, disarcionato e poi devastato dagli zoccoli dei cavalli che seguivano. Walter era un violento: lo si era visto spesso frustare sul muso una Macchia perennemente recalcitrante e insofferente ai suoi comandi. Angelo era invece la personificazione della dolcezza. A lui era riservato anche il compito di accompagnare Macchia al passo dopo il canter per far sì che si rilassasse e si asciugasse il sudore, a lui il compito di riportarla nel box già pulito, dove non sapeva fare a meno di accarezzarle a lungo il garrese e la criniera, mentre lei lo fissava con i suoi occhioni vivaci, attorcigliando di tanto in tanto le orecchie asinine quando le sussurrava parole affettuose, e mordicchiandogli dolcemente le spalle, quando lui gliele voltava, per poi ritrarsi un po’ e ghignare come solo un cavallo sa fare, esponendo al mondo tutta la sua importante dentatura.
- Piantala ! – Gli urlava spesso, sogghignando, Roberto. – Me la fai andare in calore ! -

Il rapporto tra Macchia e Walter andava peggiorando di giorno in giorno. Le frustate sul muso erano sempre più frequenti e la puledra non ne voleva più sapere di entrare in pista con lui per il canter. Così un giorno, all’ingresso della pista di allenamento, si impennò improvvisamente, ruotò su se stessa e scaricò Walter a terra, con la faccia nel fango, tra le grandi risate dei colleghi.

Angelo voleva frequentare la scuola di allievi fantini, per diventare bravo e famoso come il povero papà. Roberto sapeva che doveva pur incominciare … perché non metterlo subito in sella a quel mucchietto di ossicini nevrastenici con cui sembrava aver creato un’ intesa speciale? Al passo e al trotto Angelo aveva già provato, con più cavalli, anche con Macchia, dimostrando attitudine naturale. Ma al galoppo? Come si sarebbe comportato? E poi con quella schizzata di Macchia? Roberto riprese per la cavezza la cavalla ribelle e chiamò Angelo.
- Ok Angelo, questa è la tua amica speciale. Montala e falle fare un canter. Redini corte, braccia basse e tese e punte dei piedi in avanti, mi raccomando. Se tira trattienila. Sei pronto? E vedi di non ripetere la brutta figura di Walter

Angelo non se l’aspettava. Aveva visto la brutta figura di Walter. Non voleva ripeterla. Dopotutto lui e Macchia si volevano bene, no? Era però un po’ spaventato. Anche Macchia sembrava ancora molto nervosa.
- Ok Roberto. Lascia però che le faccia fare due passi accanto a me. Poi torniamo qui, monto in sella e proviamo ad entrare in pista. Va bene?
- D’accordo Angelo. Fa con calma. Ti aspetto qui
Angelo si incamminò con Macchia al fianco lungo i passaggi che circondavano i box. Intanto le parlava, come sempre. Le raccontava i suoi piccoli problemi di ogni giorno, le sue speranze, le sue ambizioni. Avrebbe voluto che il suo papà potesse essere orgoglioso di lui, un giorno, da Lassù … Angelo continuava ad accarezzarla e a grattarle ogni tanto la criniera, come piaceva a lei, poi tornarono all’ingresso della pista, dove Roberto li aspettava.

- Ok Roberto. Voglio provare.-
Gli porse la gamba sinistra e saltò in sella. Un colpettino di tacco, le redini lunghe per tranquillizzarla, e Macchia si lasciò portare in pista. Quando Angelo accorciò le redini Macchia riconobbe il comando e schizzò al galoppo.
Roberto li guardava da lontano, col cannocchiale. Angelo stava in posizione perfetta, ginocchia quasi unite, punte dei piedi avanzate, corpo molto rannicchiato e disteso. Seguiva le istruzioni con grande disinvoltura. Figlio d’arte. Macchia galoppava con un’andatura particolare: falcate strette ma molto rapide. Caratteristiche tipiche di una buona velocista. Era la prima volta che Roberto riusciva a considerarla un cavallo da corsa. Adesso avrebbe potuto anche scommettere qualche centesimo del suo tempo su di lei.

Da quel giorno in poi fu Angelo a montare Macchia in allenamento. Tutti i giorni. Lui le spiegava sempre quello che avrebbero fatto e lei attorcigliava regolarmente le orecchie per capire quello che lui le diceva. La coppia funzionava perfettamente e funzionò alla grande quando fu il momento di insegnarle ad affrontare le difficili gabbie di partenza. Macchia sotto le ingenue ma attente mani di Angelo era maturata e ormai pronta per le corse di Settembre. Giovannino Fois, il fantino di scuderia, la testò un paio di volte sulla pista in erba, quella veloce, e ne rimase colpito: - Andatura nervosa ma molto efficace e generosa. Una buona velocista. – Sentenziò. – Buona per i 1000 metri in pista dritta.

Roberto la iscrisse al Premio Bimbi, il primo premio importante per i due anni, che si sarebbe svolto in Settembre, a San Siro. 1000 metri in pista dritta, come suggeriva Giovannino. E infine arrivò il gran giorno. Angelo, emozionatissimo, la portò a piedi all’ippodromo, lungo la strada che costeggia le scuderie. Macchia venne sellata e poi accompagnata al tondino, dove giunsero in seguito Lucia, Roberto e infine Giovannino nella sua giubba sgargiante, bianca con la croce di Sant’Andrea blu, i colori di San Rossore. Angelo la consegnò a Roberto che diede le ultime istruzioni a Giovannino: - Mi raccomando, non forzarla in partenza e poi spingila in progressione. A braccia. La frusta fagliela soltanto vedere e da lontano. Angelo non vuole che tu la usi.

Giovannino la portò in pista, insieme agli avversari, e tutti i cavalli ( erano sette ), raggiunsero in breve, al galoppo leggero, le gabbie di partenza, a destra, in fondo alla dirittura principale. Macchia era, per sorteggio, la più esterna di tutti, la più lontana dalla staccionata.
Lo starter aprì le gabbie. Macchia ebbe un leggero scarto, poi si riprese. Giovannino interpretò alla grande il suo carattere decidendo di lasciarla fare da sola, accompagnandola a braccia ma senza forzarla. Il caratteraccio della figlia di Matilde non tardò a farsi riconoscere. Aveva capito tutto e recuperò rapidamente terreno fino a insidiare, travolgere e lasciare a due lunghezze Wouwermann, il favorito della corsa. Angelo corse in pista come un pazzo e saltò addosso a Macchia che si fermò tranquilla davanti a lui per gustarsi fino in fondo la sua affettuosa riconoscenza e il suo entusiasmo.

Macchia corse ancora a due anni, sempre a Milano, il Gran premio dell’Avvenire, e vinse ancora, e vinse ancora l’anno seguente le Oaks d’Italia, il più grande trofeo riservato in Italia alle sole femmine, e poi ancora in Francia, in Inghilterra e, a 4 anni, nel Kentucky. 12 gran premi internazionali, 12 vittorie, sempre nelle braccia di Giovannino Fois, il fantino che frusta col cuore, come ormai lo chiamavano tutti.

Lucia volle riservare a Macchia, per chiudere la carriera di corsaiola e prima di iniziare quella inevitabile di fattrice, un’ ultima corsa a San Siro, la sua pista. Una corsa non troppo impegnativa, una vera e propria passerella, davanti al suo pubblico e ai suoi fan.

Cari amici lettori, che avete avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto nel racconto, a Voi e alla Vostra sensibilità lascio la scelta del finale di questa storia romantica.
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2009/01/09

 
 
 REBECCA
 

Avevo accompagnato Rebecca alla stazione della metropolitana. Sarebbe tornata a Milano e da lì a Malpensa dove avrebbe proseguito per Barcellona. L’avevo conosciuta su un volo da Roma due giorni prima, e durante una conversazione intrigante, dove la storia della nostra vita veniva qua e là insaporita dal vivace confronto di emozioni vissute, ero riuscito a convincerla a interrompere il suo ritorno in Spagna per trascorrere il fine settimana a Milano. C’era una zia da parte di sua madre che lei desiderava rivedere da tempo e da cui sarebbe stata sicuramente accolta con gioia, e c’era anche la sua promessa di trascorrere il giorno dopo con me.
La raggiunsi Domenica mattina in Piazza del Duomo. Mano nella mano girammo in allegria per la città come due ragazzini ( raccontandoci tutte le stupidate che ci venivano in mente ) : il Castello, Sant’Ambrogio, il Cenacolo vinciano, la Scala, le mete turistiche insomma che usavo riservare ai miei colleghi americani quando mi venivano a trovare e che li lasciavano sempre entusiasti. Per la sera avevo scelto un locale romantico nella zona di Brera, quella degli artisti, dove l’atmosfera dominante è al tempo allegra e sensuale e i cartomanti, seduti qua e là lungo le stradine, a lume di candela, assecondano i sogni dei loro clienti per qualche decina di euro. Tutto si era svolto con molta naturalezza, come da manuale, anche la rapida occhiata d’intesa che confermava la meta per la notte.

Erano trascorsi molti anni dall’ultima volta in cui mi ero trovato a passare una notte in bianco con una donna. Ma Rebecca è una donna speciale. Sa come eccitare un uomo e non farlo assopire mai. Le mani sono la sua arma strategica d’attacco e le sue carezze, all’apparenza innocenti, sono in grado di travolgere qualunque forma di timidezza e demolire sul nascere ogni ansia da prestazione. Rebecca non ti chiede nulla. Ti prega soltanto di rimanere immobile, fin quando possibile. In silenzio comincia ad accarezzarti dolcemente e a lungo le palpebre e la bocca, poi scende lentamente con le sue dita intorno al collo e da qui, con ampi cerchi, sul petto, per poi scendere ancora, sempre più lentamente, tergiversando qua e là sulla tua pelle impaziente e proseguendo il cammino fino all’ approssimarsi dell’obbiettivo finale, che circonda con le sue carezze, lievemente, sempre più lievemente, senza mai darti l’impressione di volerlo conquistare, fino al momento in cui tu non riesci più a trattenerti e prendi con decisione l’iniziativa, scatenando la guerriglia su altri fronti e ritrovarti, alla fine, una cosa sola con lei nel tenerissimo talamo della pace.
Una volta. Ancora una volta. Una volta ancora.
Rebecca la definisce la strategia delle tre elle: da lontano, lentamente, lievemente.

Dalla stazione al mio ufficio la strada è breve: la notte in bianco non sembrava darmi problemi, ma i problemi c’erano comunque, tanti e di altra natura: il direttore della Banca Popolare che aspettava da me delle risposte circa i pagamenti della Dalmine, la Dalmine, che aspettava da me la data del collaudo finale del sistema controllo fumi, la Sapio che doveva dirmi quando mi avrebbe finalmente consegnato le bombole per chiudere la commessa della Dalmine, per non parlare della donna delle pulizie che voleva essere retribuita in nero per non pagare le tasse. Ero immerso in questi pensieri quando arrivai alla rotonda che collega Viale Campania con il Viale delle Industrie. All’incrocio notai fermo, in piedi, un uomo che mi ricordava in modo impressionante Angelo, un mio vecchio caro amico e collega di lavoro. Sì, sembrava proprio lui. Ma Angelo ci aveva lasciato vent’anni prima, a soli quarant’anni. Aveva contratto una particolare forma di asma e soffriva di acciacchi vari cui non aveva mai dato peso. Un giorno un amico comune mi avvertì che era morto. Andai a casa sua, per l’ultimo saluto. Attorniato da amici e parenti era adagiato nell’angusto soggiorno del suo appartamento in una bara di acciaio equipaggiata con un incredibile, rumoroso impianto di raffreddamento. Nessuno sapeva spiegarmi com’era veramente andata. Sua moglie, con una pancetta debordante che non le impediva di vestire nell’occasione una minigonna nera, faceva, sorridente, gli onori di casa.

Angelo era stato per me un grande amico, probabilmente l’unico vero amico della mia vita. Come ci incrociammo, sul lavoro, entrammo subito in confidenza. Si parlava di tutto, tra di noi, del lavoro, della famiglia, di politica, di donne, di sesso. Credo che lui invidiasse in me un livello sociale e culturale che comunque non usavo ostentare, mentre io ammiravo in lui la non comune intelligenza e una sua ( ostentata ) esperienza di vita che mi incuriosiva e mi acchiappava. Sembrava, tra l’altro, che lui sapesse tutto sulle donne e sul sesso, argomenti che, francamente, per gran parte della mia vita mi avevano trovato abbastanza impreparato e in cui lui mi fu certamente maestro. Ricordo quando mi diceva: “ Sai come si fa a capire se una donna è brava a letto? Devi osservarla attentamente quando mangia. Se si mostra tutta educata e compita, diffida. Se si abbuffa avidamente e magari si succhia anche le dita, vai tranquillo! Non ti deluderà.”

Continuavo a guidare verso l’ufficio mentre l’immagine di quell’uomo fermo all’incrocio e il ricordo di Angelo si erano rapidamente avvitati uno nell’altro e mi avevano agguantato. Improvvisamente invertii il senso di marcia e tornai alla rotonda. L’uomo era ancora lì, fermo, in piedi, con una vecchia borsa di pelle marrone nella mano sinistra. Sembrava aspettasse qualcuno. Mi avvicinai e mi fermai davanti a lui. Incrociammo i nostri sguardi per qualche attimo, poi lui sorrise, aprì dolcemente la portiera, entrò nella macchina e si sedette al mio fianco, senza dire una parola.
- Dove … Dove posso accompagnarla? – Cercai di rompere il ghiaccio, con grande imbarazzo.
- A casa tua, Giulio, se puoi e se non disturbo. -
Mi dava del tu e conosceva il mio nome. Uno tsunami sanguigno prese a scaricarsi nelle mie arterie. Lo osservai ancora, di sfuggita: era proprio lui e mi appariva esattamente come vent’anni prima : lo stesso sguardo asettico in un profilo facciale spigoloso e un corpo magro, anzi, secco, vestito da un abito grigio, classico e come sempre trascurato.
- D’accordo! … Angelo? -
- E chi altri, Giulio ? – Rispose ridendo.
Restammo così in perfetto silenzio ( mentre la mia materia grigia delirava nei propri fumi ) fin quando arrivammo a casa. Giunti nel soggiorno ci sedemmo, uno di fronte all’altro, e ci guardammo ancora profondamente negli occhi. Poi con la sua flemma di sempre e tagliando ogni inutile ( per lui ) preliminare cominciò a parlare :

- Giulio, devi sapere che ho due missioni importanti da compiere. Molto importanti. Se sarò bravo e fortunato ne sentirai presto parlare. Ho colto questa occasione per venirti a trovare: sei sempre stato per me un vero amico e mi hai insegnato molto, quando ci frequentavamo, senza farmelo mai pesare. Desideravo farti un regalo e trascorrere ancora qualche minuto con te ( ma non ti ho mai perso di vista, chissà se te ne sei accorto ).
Voglio dirti una cosa: un giorno, ma scorrerà ancora del tempo, l’umanità dovrà arrivare per forza a prendere davvero coscienza di sé. Attualmente la ricerca rincorre soltanto obbiettivi che presentino un ritorno in qualche modo remunerativo e quindi esclusivamente finalizzati al miglioramento della qualità della vita materiale. Niente di male, per carità, ma purtroppo con l’avvento dell’era industriale il mondo dei geni fai da te e dei ricchi mecenati che li scoprivano e li alimentavano è scomparso e allora filoni poveri del sapere che però potrebbero aiutare l’uomo a conoscere i misteri che lo caratterizzano e lo circondano, e sono tanti, vengono sistematicamente ignorati. Ci sono teoremi che la scienza ha abbozzato ma che non le importa approfondire e le varie religioni ( a parte, forse, quelle nate nell’estremo oriente ) riescono soltanto ad addormentare, con i loro dogmi, la ricerca dinamica della verità.

Voglio farti un esempio: l’accoppiamento sessuale tra un maschio e una femmina ( - Eccolo lì ! - stai sicuramente pensando, vero? ): quanto si è detto, quanto si è scritto su questo argomento! Quante interpretazioni diverse e contrastanti, ma soprattutto limitate, gli sono state attribuite: romantico e indispensabile traguardo di una storia d’amore, puro piacere fisico, necessità sociale dai risvolti religiosi... Qualunque sia la motivazione che lo promuove, Giulio, l’accoppiamento sessuale tra un uomo e una donna rappresenta il punto d’incontro più intrigante tra quello che l’uomo pensa di essere e quello che è realmente, e potendo dar luogo alla nascita di una nuova esistenza rappresenta un fenomeno di immenso spessore, tante sono le variabili che in perfetta sintonia lo determinano, un mistero fantastico che continua a travalicare la conoscenza umana.

Quali sono queste variabili? Beh, come tu sai, ogni zona spaziale, piccola o grande che sia, è caratterizzata , oltre che dalle tre classiche coordinate geometriche, anche da infiniti altri fattori, quali i gas che l’attraversano ( per esempio l’aria e gli odori ), la temperatura, la pressione, l’umidità, la natura e la storia della materia che la occupa, l’energia che la percorre ( quella luminosa, per esempio, o quella sonora ) e altri numerosi parametri che i sensi comuni e le attuali conoscenze non sono ancora in grado di rilevare. Tutti questi elementi sensibili, riconoscibili o meno dalle tecnologie attualmente note, influenzano e in qualche modo determinano le attività umane, e in particolare la più importante, quella sessuale, che sta alla base della procreazione. Questi dati variano col tempo ma non possono essere perduti e costituiscono un formidabile archivio attivo nella dinamica delle attività umane. La medicina omeopatica ha per prima colto l’importanza di questa realtà, anche se in modo estremamente limitato.

Mi fermo qui, per ora. Mi rendo conto di averti fuso la materia grigia sin dal momento in cui sono salito sulla tua macchina. Adesso me ne manca il tempo, ma tornerò presto, perché ho in programma di studiare insieme a te nuove strade conoscitive che possano essere approfondite dagli uomini. Ora devo andare, Giulio, caro, vecchio amico mio. No. Non ho bisogno che mi accompagni. So andare da solo dove devo andare. -
E ridendo : - Conosci una certa Rebecca? Sai, anche lei non aveva bisogno che tu l’accompagnassi alla metropolitana … -
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2008/10/08



IL TESTACODA


- Salve !
- Salve, rispose tiepido il pescatore, senza togliere lo sguardo dal galleggiante che danzava dolcemente sull’acqua.
- Mi voglia perdonare, continuai a voce bassa, con aria falsamente contrita. Sa, conosco bene il tipo, intendo dire il curioso che arriva qui, si avvicina e comincia a farti domande, sempre le stesse : - Si pesca qualcosa da queste parti? E che cosa? E oggi com’è andata? -
- Non tema. Non le chiederò nulla.
La vedo perplesso. Si starà certamente domandando chi sia e che cosa voglia da lei. No, non ci siamo mai incontrati prima. Ma sono stato un pescatore per diletto anch’io. Ho trascorso le mie vacanze estive proprio qui, molto tempo fa, per cinque anni, e il mio unico svago, nei primi tempi, era scendere al molo, questo stesso molo, tutti i giorni, con la mia canna, le mie lenze e, qualche volta, le mie esche.
Lei sorride … Sì, lo so, senza esche non si prendono pesci, creature che comunque restituivo al lago, perché a casa nessuno le avrebbe cucinate. Ma non venivo qui soltanto per questo.
Davvero è curioso di saperne di più? Davvero non la disturbo?

Ero un ragazzino milanese di buona famiglia, come si suol dire, padre assente e madre autoritaria e possessiva. Ultimo di cinque fratelli, la distanza dal penultimo era tale ( otto anni ) che di fatto a casa vivevo in perfetta solitudine, senza giochi, confidenze ed affetti da dividere con qualcuno. ( Più tardi ho saputo di essere nato per una disattenzione dei miei genitori ). Quando ero qui in vacanza, in un appartamento in affitto, la mamma mi teneva sempre strettamente legato a sé: si facevano le passeggiate insieme, si andava a fare la spesa insieme, si andava al ristorante insieme e restavo spesso seduto al suo fianco al caffè con orchestra, a volte per pomeriggi interi, mangiando il gelato in una coppa di metallo.

Un giorno Roberto, mio cognato, venne a stare con noi per qualche tempo e, abile pescatore qual’era, mi insegnò con pazienza l’arte della pesca. Mi ci buttai subito con entusiasmo. Non avevo ancora tredici anni quando mi fu rilasciata la licenza, il mio primo documento ufficiale, con tanto di fotografia. Mi ritrovai presto fiero nel costruire con cura la mia lenza, oculato nella scelta dei materiali, delle esche e dei fondali e attento alle strategie da seguire di volta in volta, in funzione del tipo di preda da catturare. Intanto scoprivo, adagio adagio, che tutto questo stava diventando per me una realtà straordinaria, tutta mia, solo mia, dove ritrovarmi finalmente vivo e libero, con i miei sogni, le mie domande, le mie speranze, le mie malinconie, tutte aggrappate là, su quel galleggiante, con o senza esca, con o senza pesci, mentre ascoltavo e avevo imparato a distinguere i sottili rumori del lago, la sinfonia della vita …
Vedo che capisce. E mi chiede di continuare.

Oggi è il 9 Settembre. Non è una data qualunque. Perché era il 9 Settembre di cinquanta anni fa quando ebbe inizio la storia che mi accingo a raccontarle. Ero qui, appoggiato a questo muretto, esattamente nel punto in cui è lei in questo momento, con lo sguardo concentrato sul mio sughero colorato, come sempre. Si stava avvicinando il dolce vespro di lago quando una voce, alla mia sinistra, una voce giovane e allegra, mi sussurrò: - Ciao, Valerio! - E ridendo aggiunse: - Sorpreso che io conosca il tuo nome, vero? Nessun mistero, sai … Abito nella casa proprio di fronte alla tua e sento spesso tua mamma che ti chiama. -

Si chiamava Fiammetta, aveva un paio di anni più di me ma le piaceva parlarmi e sapeva ascoltarmi. Era tanto bella: un morbido caschetto di capelli biondi incorniciava un sorriso dolcissimo, spontaneo e pieno di vita. Diventammo subito amici. Ci trovavamo bene insieme e ci facemmo spesso compagnia qui sul molo, sfidando la rabbia della mamma che vedeva sfuggirle il suo bambino, quel bambino che sentiva invece prendere vita con crescente stupore la sua affettività, l’ebbrezza di misurare i suoi sentimenti con il mondo, un mondo ancora inesplorato che aveva preso gioiosamente il nome di Fiammetta. Avevamo un sacco di cose da dirci, cose semplici, di tutti i giorni: parlavamo di scuola, di vacanze, di sport, delle nostre famiglie, delle nostre speranze e delle nostre malinconie e mentre pescavo le piaceva cercare tra i grumi di terra nel sacchetto il verme più bello da porgermi con le sue dita.

Quattro anni dopo sarebbe stato l’ultimo anno qui al lago per me. La mamma aveva deciso di trasferire la residenza estiva su in collina. Ma c’era ancora un’estate da trascorrere insieme, la canna da pesca era ormai parcheggiata nel ripostiglio, le nostre biciclette ( la sua era una elegante Legnano bianca ) divennero le nuove unità strategiche di collegamento, le passeggiate lungo le stradine di Stresa e il bagno nel lago, con o senza amici, i nostri teneri momenti di contatto.
L’influsso della mamma e della sua gelosia si era affievolito ma non era scomparso. Per me incontrare Fiammetta rimaneva sempre un atto trasgressivo, da tenere nascosto, ma lei mi cercava, e anch’io la cercavo anche se non avevo e non ho mai avuto il coraggio di prenderla per mano, darle una carezza, dirle una parola d’amore. E sentivo di amarla. E sicuramente l’amavo.

C’è una stradina un po’ nascosta e poco frequentata dietro la chiesetta di San Michele: qualche volta la percorrevamo insieme per risalire a casa dopo una passeggiata. Aveva un po’ di paura a passarci la sera (ma a volte era proprio lei a proporlo) e allora mi divertivo a spaventarla, mettendola in guardia da improbabili mostriciattoli volanti.
La sera prima che lei partisse per il mare, era un po’ più tardi del solito, arrivammo al punto in cui la stradina si sdoppia, salendo dritta verso la collina o scendendo a destra verso le nostre case.
Tirai diritto. Non l’avevo mai fatto. Mi guardò: esitava, non capiva, e continuando a camminare al mio fianco continuava a guardarmi, in silenzio. Facemmo alcuni passi così, poi mi fermai girandomi verso di lei e i nostri sguardi si incrociarono, spaventati, l’uno nell’altro, mentre sentivo il sangue aggredirmi le tempie e soffocarmi il respiro. Ma quelle parole, quelle due semplici parole che da sempre avevo sognato di dirle, mi si spensero ancora una volta nella gola.
Sapevo che era in ritardo. Mi voltai allora lentamente e lentamente l’accompagnai fino al cancello di casa, dove il profumo rosso della canfora permeava quello che sarebbe stato, con una lunga stretta di mano, il nostro ultimo tenero saluto.

Passò a trovarmi su in collina, l’anno dopo, nella nuova casa, durante una passeggiata a piedi con chiassosi amici comuni. Aveva piovuto. Mi chiese se potevo prestarle qualcosa di asciutto per cambiarsi. Le passai una maglietta marinara a strisce orizzontali rosse e blu. Quando, andandosene, se la tolse, la ripiegai con cura, e in una scatola di cartone quella maglietta è ancora oggi piegata come allora.

La sto annoiando, vero? Perché ho l’impressione che lei abbia già intuito il resto di questa storia. Lei sa che le nostre strade si erano ormai divise, e per sempre.
Ma non era proprio tutto finito. Dentro di me era rimasto qualcosa di lei, qualcosa di prezioso che nessuno poteva portarmi via, un angelo biondo che si faceva sempre trovare quando lo cercavo, per raccontargli le cose di tutti i giorni, come era abitudine tra di noi.

Alla fine degli studi il servizio militare. Sottotenente in una caserma di Milano avevo tutto il tempo per riflettere su me stesso, sulla mia vita, sulle cose perdute e su quelle che, ero convinto, non mi avrebbero mai appartenuto. La mia autostima in quel periodo aveva raggiunto il minimo storico, complici la timidezza del carattere e quella ormai vecchia presenza possessiva e prepotente della mamma che aveva pesantemente condizionato la mia adolescenza e non solo quella.
Ricordo che un giorno, ero ufficiale di picchetto, mi trovai a estrarre dalla fondina, guardare e accarezzare a lungo la mia Beretta di ordinanza. Un’altra volta scoprii con interesse sul Corriere, nella pagina della cronaca dove si parlava del suicidio di un ingegnere, la ricetta per morire in un modo semplice, incruento e indolore. Vai in farmacia, compri una bottiglietta di etere etilico e del cotone idrofilo. Prendi poi un sacchetto di plastica del supermercato e un elastico robusto. Ti siedi a terra con le spalle appoggiate al muro, introduci la testa nel sacchetto e ci infili sopra l’elastico, all’altezza del collo, tenendolo ben teso con il pollice della mano sinistra, in modo da lasciarvi penetrare l’aria. Poi con la mano destra apri la boccetta di etere, la svuoti sul batuffolo di cotone e spingi questo sotto le narici, respirando profondamente. Quando ti addormenterai la mano sinistra non riuscirà più a tendere l’elastico e tutto sarà finito.
L’ho disturbata? Capisco. Ma programmare un suicidio nei minimi dettagli tecnici, mi creda, è il modo migliore per esorcizzarlo. Sono convinto che chi ha intenzione davvero di compiere l’ultimo gesto non abbia normalmente né la voglia né il tempo di pensarci troppo. Comunque l’angelo buono dentro di me non se ne era mai andato e sicuramente vigilava.

Terminato il servizio militare mi tuffai con una buona dose di grinta nella vita sociale: il lavoro, le esperienze internazionali, i primi successi, il matrimonio, due figli meravigliosi accompagnati con amore fino alla laurea e al battesimo professionale.
Poi, qualche settimana fa, inaspettato, il testacoda. L’ho definito così.

Deve sapere che nel periodo della mia educazione sentimentale, quella che le ho dipinto poco fa, avevo l’abitudine di raccontarmi in un diario, in modo ingenuo, schietto, dettagliato. Dei miei incontri con Fiammetta mettevo in risalto tutti gli aspetti, fin nei minimi particolari: il modo con cui mi guardava e sorrideva, le parole che mi diceva, le canzoni che si cantavano insieme, desideri, paure, emozioni, tutte le luci, le ombre e i sapori di una passeggiata in bicicletta sotto il faro della luna … Questo diario è rimasto chiuso per decenni nella scatola di cartone insieme alla maglietta marinara a strisce rosse e blu. Non l’ho mai più aperto. Fino a qualche settimana fa. L’avvicinarsi di quell’ anniversario particolare, che non poteva sfuggirmi, mi ha indotto ad aprirlo e rileggerlo.

Mi chiede perché. Non so fornirle un motivo. O meglio, non uno solo. Mi riesce difficile spiegare perché abbia voluto far riaffiorare improvvisamente episodi ormai perduti nel tempo, emozioni incontaminate, in parte dimenticate, ma proprio per questo riemerse in modo drammatico: tenerezza, nostalgia, rimpianto, e poi rabbia ed angoscia … Ero riuscito a confezionarmi una miscela emotiva dirompente. E alla fine ha prevalso l’angoscia: la consapevolezza dolorosa dell’ ineluttabile morte delle cose belle e incompiute che non ci appartengono più e che non possono più ritornare. Uno straziante senso di impotenza di fronte alla necessità di correre incontro a quelle due creature stupende, nella loro stradina segreta, e aiutare quel ragazzino intimidito dai suoi sentimenti a trovare il coraggio di dire quelle parole che non gli riuscì di dire mai. Quelle due parole che gli hanno strangolato il cuore, come canta il poeta, per tutta la vita.

Il mio racconto si ferma qui, caro amico, posso chiamarla così? Si ferma qui, proprio qui e in questo momento, ora che il lago increspa e si fa sera, ora che giunge dolce il vespro di Settembre che ubriaca di malinconia, proprio come quella sera …
Vedo che vuol restare anche lei ad aspettarlo. Mentre parlavo non ha mai tolto lo sguardo dalla sua veletta, nonostante mi sembrasse incuriosito, perfino interessato. Ho avuto però l’impressione, andando avanti nel racconto, che lei conoscesse già qualcosa di questa storia. O tutto, chissà ... Forse non è poi così vero che non ci siamo incrociati mai.
Fra poco recupererà la lenza e metterà ordine nel suo zainetto. Poi dovrà girarsi verso di me e ci guarderemo finalmente negli occhi, così potrò rispondere alla sua ultima domanda, quella che non mi ha ancora voluto fare . -

Allora il pescatore appoggiò la canna sul muretto, abbandonò il galleggiante al suo destino e si voltò verso di me :
- Sì. Ho infatti una domanda da farle, caro amico, ma non è quella che lei si aspetta. Riguarda il suo diario. Vorrei sapere se si è chiesto perché lo ha abbandonato in quella scatola di cartone per quasi cinquant’anni, probabilmente in cantina, tra le cose che non servono più, perché non ha mai sentito il desiderio di riprenderlo in mano, rileggerne qualche passo, rivivere nella loro spontaneità quei momenti di tenero amore che Fiammetta le aveva donato, perché Fiammetta l’ha amata davvero e l’ha amata tanto, tanto quanto solo una donna sa amare, quando ama, fino al punto di accettare di perderla.
Ma lei non se ne è mai accorto, tanto era preso da sé stesso, dalla commiserazione di sé stesso, della sua infelicità famigliare, del suo immenso amore incompiuto, della sua incapacità di esprimerlo, delle parole che avrebbe voluto dire ma che non ha mai saputo dire, delle cose che avrebbe voluto fare ma che non è mai riuscito a fare.
Lei ha poi dimenticato negli anni l’esistenza di quel diario, così come ha dimenticato tutto quello che Fiammetta le aveva donato senza chiederle mai nulla, così preso com’era dalla sua vita sociale, come l’ha chiamata poco fa, dal suo lavoro, dai suoi successi e dall’orgoglio di avere accompagnato con amore ( sicuro che fosse amore? ) due figli meravigliosi ( ci mancherebbe altro, sono suoi e li ha cresciuti lei ) verso la loro vita sociale.
Amico mio, posso darle del tu?

Bene. Oggi tu hai evitato, e non a caso, di raccontarmi un episodio decisivo della vostra storia che hai rivissuto intensamente ( con il cuore di ieri ma con la testa di oggi ) sulle pagine del tuo diario. Hai evitato di parlarne perché tu hai sempre vissuto male le tue debolezze, gli insuccessi e i fatti della tua vita dove ti sei riconosciuto colpevole di qualcosa ( come in questo episodio ma, questa volta, a torto ). Piuttosto che pensare a custodire con cura e gratitudine dentro di te le cose preziose che la vita ti ha donato, e non sono state poche, hai spesso preferito dedicare il tuo tempo a crogiolarti in angosce infantili per ogni sconfitta, vera o presunta che fosse, da dimenticare poi al più presto. Quella sera in cui vi salutaste, dopo qualche esitazione, nella stradina segreta, non fu il vostro ultimo, tenero incontro. Questo ebbe luogo tre mesi più tardi, a Milano.

Eri stato invitato da Fiammetta alla festa per il compleanno di un’amica, a casa di quest’ultima, dove i partecipanti erano tutti ragazzi più grandi di te e lei, con i suoi splendidi diciannove anni, la più desiderabile fra tutte le presenti. Quella sera lei stette sempre accanto a te, parlando con te, giocando con te, ballando con te e solo con te, per tutta la sera.
A metà serata Fiammetta colse due delle rose rosse che ornavano la torta di compleanno e levando con le labbra dai loro gambi le ultime tracce di crema ne infilò una nei suoi capelli e l’altra nel bavero della tua giacca. Quella rosa era conservata nella scatola di cartone insieme al diario e alla maglietta marinara. Quando l’hai trovata, cercando il diario, non hai capito cosa fosse e da dove arrivasse.
Come ballerino non valevi molto, avevi imparato qualcosa da poco tempo, con tua cognata che ti faceva da insegnante, ma lei ballò abbracciata a te per tutta la sera, con gli amici che vi avevano allora soprannominato gli instancabili. Tu tenevi appoggiata la tua testa alla sua che a sua volta era posata sulla tua spalla, mentre le vostre mani si stringevano e le dita, intrecciandosi, si accarezzarono instancabili per tutta la sera.
Tu non hai mai voluto sapere che quella sera Fiammetta ti aveva dichiarato il suo amore, il suo amore per te. E non poteva fare di più, mentre tu ti sentivi impreparato a seguirla, ti faceva paura. La vostra tenerissima storia d’amore era destinata a finire così, e non poteva finire in un modo più dolce, proprio nel momento più intenso e più bello, in quella sera di Novembre, a Milano.
Ma non è affatto finita e tu lo sai.

Ciao Valerio, uomo fortunato. Ora devo andare. Vedi di proteggere il tuo angelo dal caschetto biondo, ancora presente nonostante la tua ingratitudine, con l’affetto gioioso che merita e con cui sicuramente Fiammetta ti ricambierebbe ancora oggi e ti ricambierà per sempre nel suo cuore.
Sai una cosa ? ... Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare. -

Rimasto solo Valerio si sedette sul muretto, le gambe penzoloni nel vuoto e lo sguardo perso nell’orizzonte. Il dialogo con il pescatore rieccheggiava nella sua mente, parola per parola, con intensità crescente, mentre le acque del lago avevano preso ad accompagnare con odori intensi e suoni delicati le ultime parole : “ Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare “.
Si rendeva conto di essersi impantanato nell’angoscia dei ricordi, nei quali molto forte era stata la tentazione, che l’aveva accompagnato quel giorno fino al molo, di lasciarsi affogare. E sul molo aveva atteso inutilmente dal pescatore la domanda cui aveva pensato di dover rispondere.

“ Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare “ … Queste parole gli gonfiavano il cuore e le tempie. Valerio abbandonò il molo e tornò a casa. Si sedette alla scrivania e incominciò a trascrivere il dialogo della giornata in qualcosa che veniva ad assomigliare sempre di più a un racconto allo stesso tempo drammatico e dolcemente romantico.
Dopo qualche giorno si mise a cercare l'unico indirizzo facilmente rintracciabile, quello della mamma di Fiammetta. Lo trovò. Prese carta e penna e le scrisse una breve lettera, alla quale allegò diario e racconto, pregandola di consegnare il tutto a sua figlia, personalmente. Voleva essere certo che qualcosa di lui e del suo amore per lei ritrovasse la strada dei suoi occhi e del suo cuore. Non aveva bisogno di altro. Non poteva desiderare di più. Era certo che la mamma, che a suo tempo gli aveva voluto un gran bene, lo avrebbe accontentato.

La mattina del 24 Settembre Valerio spedisce la lettera alla mamma di Fiammetta.
Il giorno dopo, Giovedì 25 Settembre, alle 18.47, squilla il suo cellulare:
- Valerio ? Ciao, sono Fiammetta ...

Erano trascorsi quarantacinque anni, due mesi e undici giorni dall’ultima volta che Valerio e Fiammetta si erano incontrati.
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