2013/03/08

 
STORIE D'ALTRI TEMPI
 

Luigi Capelli, amato professore di lettere al Liceo Alessandro Volta di Milano negli anni 60, ma anche poeta e critico letterario al Corriere della Sera, ci assegnò un giorno questo tema in classe: La storia maestra di vita. Dopo un breve momento di imbarazzo (allora pensavo infatti che fosse la filosofia la materia più adatta a darci insegnamenti di vita) mi balzarono alla mente due fatti storici che mi sembravano particolarmente significativi e tra l’altro ben vivi nel ricordo degli studenti di sempre per la loro peculiarità e lo spessore morale dei protagonisti.
Il primo episodio di cui decisi di parlare si svolgeva durante la  guerra tra Roma e Albalonga (650 a.C.) dove i due re (a Roma regnava Tullio Ostilio e ad Albalonga Mezio Fufezio) concordarono di rinunciare al proseguio del bagno di sangue tra i due eserciti e di dirimere le loro questioni territoriali affidando ad alcuni valorosi guerrieri (tre per parte) il compito di risolvere, in un duello alla spada all’ultimo sangue, ogni controversia. Tito Livio ci racconta che Roma scelse tre gemelli, figli di Publio Orazio (i fratelli Orazi), e Albalonga altri tre gemelli, i fratelli Curiazi.
Il combattimento prese subito una piega favorevole ad Albalonga: due Orazi vennero rapidamente uccisi e il terzo, in chiara difficoltà, decise di ricorrere all’astuzia e fingere una fuga verso Roma. I tre Curiazi, nella rincorsa del sopravvissuto, stanchi, feriti e sempre più distanziati fra di loro vennero affrontati e uccisi uno dopo l’altro dal terzo Orazio che di volta in volta si fermava improvvisamente, sorprendendoli. La vittoria degli Orazi segnò la vittoria di Roma che così sottomise Albalonga. Gran parte della popolazione sconfitta trovò in seguito cittadinanza a Roma che aveva bisogno di rimpolpare il proprio esercito. Tra questi i membri della gens Quinctia, importante famiglia patrizia di Albalonga.
I testi di storia hanno sempre sottolineato e privilegiato, in questo episodio, l’intelligente strategia e la furbizia del terzo dei fratelli Orazi che aveva saputo come sopperire all’inferiorità numerica che si era trovato a fronteggiare. Io invece avevo trovato e trovo ancora che l’importanza e il vero insegnamento di questo fatto storico fosse lo straordinario senso di responsabilità dei due re che decisero di dirimere i loro contrasti cercando di evitare un enorme e inutile bagno di sangue tra i loro sudditi.
Evidente il contrasto tra questo atteggiamento responsabile e le decisioni sanguinarie che, 2500 anni dopo, provocarono le guerre mondiali che hanno caratterizzato il secolo scorso con decine di milioni di morti. Con l’ingenuità del giovane studente, sviluppai, nell’elaborazione del tema, l’ipotesi di un accordo fantastorico tra la Germania da una parte e Francia e Gran Bretagna dall’altra, per dirimere le controversie politiche e territoriali di allora, accordo che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo, facendo affrontare sulla pedana i loro migliori spadisti usciti dalle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Ma, tornando all’episodio degli Orazi e dei Curiazi, dagli Albani sconfitti venne accolta a Roma, tra le altre, concedendole la cittadinanza, la Gens Quinctia, dove avrebbe in tempi successivi avuto luce e poi spiccato, per intelligenza e spessore morale, un certo Lucio Quinzio, detto Cincinnato per via della capigliatura riccioluta. E fu proprio il famoso episodio storico riguardante Cincinnato che sembrava suggerirmi insegnamenti di vita che in questi giorni appaiono, tra l’altro, di grande attualità, a impormi lo svolgimento appassionato della seconda parte del tema.
Lucio Quinzio nacque a Roma nel 520 a.C. Uomo dai costumi semplici e austeri, si dedicò per la maggior parte della sua vita, con riconosciuta abilità, alla gestione agricola dei poderi di famiglia. Nel 460 a.C. gli vennero conferite importanti cariche politiche per via delle unanimamente riconosciute doti morali e intellettuali, cariche che presto abbandonò per tornare a dirigere con rinnovata passione le sue attività agricole che riteneva più consone alla sua natura.
Nel 458 a.C. i Romani attraversavano un momento di estrema gravità. Le tensioni tra patrizi e plebei avevano indebolito lo stato mentre gli Equi, popolo montanaro che risiedeva nelle regioni povere dell’attuale Abruzzo, scesi nella zona attorno a Tivoli e conquistata Preneste, minacciavano ormai la stessa Roma. Il console Lucio Minucio, cercando di contrastarli, rimase improvvisamente circondato e assediato, senza vie di scampo, nel suo accampamento militare sotto il monte Algido. La situazione aveva raggiunto livelli drammatici quando il Senato decise all’unanimità di richiamare e nominare dittatore proprio Cincinnato, l’unico romano che sembrava possedere l’energia e il prestigio necessari per affrontare la drammatica situazione. Furono allora mandati dei messi a Prata Quinctia dove Cincinnato stava arando la sua terra per implorarlo di tornare alla sua Roma in pericolo e accettare la dittatura e il comando dell’esercito per correre a liberare le truppe assediate e salvare la città. Cincinnato, resosi conto della gravità del momento, pronto a sacrificarsi per il bene della Patria, accettò l’offerta e tornò a Roma, attraversando il Tevere con una barca a nolo. Al suo ritorno venne acclamato dalla maggior parte dei Senatori e anche dai Tribuni della Plebe, malgrado questi ultimi giudicassero eccessiva e temibile l’autorità conferitagli.
Subito dopo il suo rientro a Roma Cincinnato elaborò rapidamente una strategia militare fondata sulla sua esperienza maturata nei campi. Ordinò che tutti gli uomini validi si presentassero armati di archi, frecce e lunghi pali. Un paio di giorni dopo l’esercito che si era così formato giunse presso il campo nemico nella valle sotto il monte Algido. Qui, durante la notte,  scavò una fossa profonda intorno alla quale vennero piantati migliaia di pali: una palizzata invalicabile che rinchiuse gli Equi nel loro stesso campo. Allo spuntare del giorno successivo gli Equi, accortisi dello stratagemma nemico, tentarono di scardinare la gabbia in cui erano stati imprigionati, ma divennero oggetto di fitti lanci di frecce che li costrinsero ad arrendersi. Cincinnato li portò prigionieri a Roma insieme al loro comandante Gracco Clelio e qui gli fu tributato il trionfo.
La carica di dittatore poteva durare fino a sei mesi senza che nessuna autorità potesse farla decadere. Cincinnato, pur tirato per la toga sia dalle varie fazioni del Senato che dalla plebe, declinò qualunque carica politica per la quale non si sentiva particolarmente adatto, rifiutando altresì onori e ricompense di vario tipo. Dopo un paio di settimane dalla vittoriosa azione militare decise di ritornare da privato cittadino ai suoi campi con la semplice soddisfazione per il dovere compiuto e per aver potuto salvare la sua città.
Anche in questo caso non mi sembrava fosse l’astuta strategia militare adottata da Cincinnato a insegnarci qualcosa di importante, bensì  la virtuosa modestia con cui, una volta assolto con successo il compito che la Patria gli aveva chiesto, decise di tornare a svolgere l’attività che gli era così cara, la sola di cui riconosceva la propria competenza, dichiarandosi comunque sempre disponibile, immaginavo, a dare il proprio contributo alla Patria qualora si fosse ancora drammaticamente reso necessario.
Un esempio di modestia, consapevolezza dei propri limiti e integrità morale che ci appaiono così lontane dalla realtà che ci viene proposta in questi giorni e dagli uomini che la rappresentano.
Cincinnato. Un uomo d’altri tempi.

Nessun commento: