IL TESTACODA
- Salve !
- Salve, rispose tiepido il pescatore, senza togliere lo sguardo dal galleggiante che danzava dolcemente sull’acqua.
- Mi voglia perdonare, continuai a voce bassa, con aria falsamente contrita. Sa, conosco bene il tipo, intendo dire il curioso che arriva qui, si avvicina e comincia a farti domande, sempre le stesse : - Si pesca qualcosa da queste parti? E che cosa? E oggi com’è andata? -
- Non tema. Non le chiederò nulla.
La vedo perplesso. Si starà certamente domandando chi sia e che cosa voglia da lei. No, non ci siamo mai incontrati prima. Ma sono stato un pescatore per diletto anch’io. Ho trascorso le mie vacanze estive proprio qui, molto tempo fa, per cinque anni, e il mio unico svago, nei primi tempi, era scendere al molo, questo stesso molo, tutti i giorni, con la mia canna, le mie lenze e, qualche volta, le mie esche.
Lei sorride … Sì, lo so, senza esche non si prendono pesci, creature che comunque restituivo al lago, perché a casa nessuno le avrebbe cucinate. Ma non venivo qui soltanto per questo.
Davvero è curioso di saperne di più? Davvero non la disturbo?
Ero un ragazzino milanese di buona famiglia, come si suol dire, padre assente e madre autoritaria e possessiva. Ultimo di cinque fratelli, la distanza dal penultimo era tale ( otto anni ) che di fatto a casa vivevo in perfetta solitudine, senza giochi, confidenze ed affetti da dividere con qualcuno. ( Più tardi ho saputo di essere nato per una disattenzione dei miei genitori ). Quando ero qui in vacanza, in un appartamento in affitto, la mamma mi teneva sempre strettamente legato a sé: si facevano le passeggiate insieme, si andava a fare la spesa insieme, si andava al ristorante insieme e restavo spesso seduto al suo fianco al caffè con orchestra, a volte per pomeriggi interi, mangiando il gelato in una coppa di metallo.
Un giorno Roberto, mio cognato, venne a stare con noi per qualche tempo e, abile pescatore qual’era, mi insegnò con pazienza l’arte della pesca. Mi ci buttai subito con entusiasmo. Non avevo ancora tredici anni quando mi fu rilasciata la licenza, il mio primo documento ufficiale, con tanto di fotografia. Mi ritrovai presto fiero nel costruire con cura la mia lenza, oculato nella scelta dei materiali, delle esche e dei fondali e attento alle strategie da seguire di volta in volta, in funzione del tipo di preda da catturare. Intanto scoprivo, adagio adagio, che tutto questo stava diventando per me una realtà straordinaria, tutta mia, solo mia, dove ritrovarmi finalmente vivo e libero, con i miei sogni, le mie domande, le mie speranze, le mie malinconie, tutte aggrappate là, su quel galleggiante, con o senza esca, con o senza pesci, mentre ascoltavo e avevo imparato a distinguere i sottili rumori del lago, la sinfonia della vita …
Vedo che capisce. E mi chiede di continuare.
Oggi è il 9 Settembre. Non è una data qualunque. Perché era il 9 Settembre di cinquanta anni fa quando ebbe inizio la storia che mi accingo a raccontarle. Ero qui, appoggiato a questo muretto, esattamente nel punto in cui è lei in questo momento, con lo sguardo concentrato sul mio sughero colorato, come sempre. Si stava avvicinando il dolce vespro di lago quando una voce, alla mia sinistra, una voce giovane e allegra, mi sussurrò: - Ciao, Valerio! - E ridendo aggiunse: - Sorpreso che io conosca il tuo nome, vero? Nessun mistero, sai … Abito nella casa proprio di fronte alla tua e sento spesso tua mamma che ti chiama. -
Si chiamava Fiammetta, aveva un paio di anni più di me ma le piaceva parlarmi e sapeva ascoltarmi. Era tanto bella: un morbido caschetto di capelli biondi incorniciava un sorriso dolcissimo, spontaneo e pieno di vita. Diventammo subito amici. Ci trovavamo bene insieme e ci facemmo spesso compagnia qui sul molo, sfidando la rabbia della mamma che vedeva sfuggirle il suo bambino, quel bambino che sentiva invece prendere vita con crescente stupore la sua affettività, l’ebbrezza di misurare i suoi sentimenti con il mondo, un mondo ancora inesplorato che aveva preso gioiosamente il nome di Fiammetta. Avevamo un sacco di cose da dirci, cose semplici, di tutti i giorni: parlavamo di scuola, di vacanze, di sport, delle nostre famiglie, delle nostre speranze e delle nostre malinconie e mentre pescavo le piaceva cercare tra i grumi di terra nel sacchetto il verme più bello da porgermi con le sue dita.
Quattro anni dopo sarebbe stato l’ultimo anno qui al lago per me. La mamma aveva deciso di trasferire la residenza estiva su in collina. Ma c’era ancora un’estate da trascorrere insieme, la canna da pesca era ormai parcheggiata nel ripostiglio, le nostre biciclette ( la sua era una elegante Legnano bianca ) divennero le nuove unità strategiche di collegamento, le passeggiate lungo le stradine di Stresa e il bagno nel lago, con o senza amici, i nostri teneri momenti di contatto.
L’influsso della mamma e della sua gelosia si era affievolito ma non era scomparso. Per me incontrare Fiammetta rimaneva sempre un atto trasgressivo, da tenere nascosto, ma lei mi cercava, e anch’io la cercavo anche se non avevo e non ho mai avuto il coraggio di prenderla per mano, darle una carezza, dirle una parola d’amore. E sentivo di amarla. E sicuramente l’amavo.
C’è una stradina un po’ nascosta e poco frequentata dietro la chiesetta di San Michele: qualche volta la percorrevamo insieme per risalire a casa dopo una passeggiata. Aveva un po’ di paura a passarci la sera (ma a volte era proprio lei a proporlo) e allora mi divertivo a spaventarla, mettendola in guardia da improbabili mostriciattoli volanti.
La sera prima che lei partisse per il mare, era un po’ più tardi del solito, arrivammo al punto in cui la stradina si sdoppia, salendo dritta verso la collina o scendendo a destra verso le nostre case.
Tirai diritto. Non l’avevo mai fatto. Mi guardò: esitava, non capiva, e continuando a camminare al mio fianco continuava a guardarmi, in silenzio. Facemmo alcuni passi così, poi mi fermai girandomi verso di lei e i nostri sguardi si incrociarono, spaventati, l’uno nell’altro, mentre sentivo il sangue aggredirmi le tempie e soffocarmi il respiro. Ma quelle parole, quelle due semplici parole che da sempre avevo sognato di dirle, mi si spensero ancora una volta nella gola.
Sapevo che era in ritardo. Mi voltai allora lentamente e lentamente l’accompagnai fino al cancello di casa, dove il profumo rosso della canfora permeava quello che sarebbe stato, con una lunga stretta di mano, il nostro ultimo tenero saluto.
Passò a trovarmi su in collina, l’anno dopo, nella nuova casa, durante una passeggiata a piedi con chiassosi amici comuni. Aveva piovuto. Mi chiese se potevo prestarle qualcosa di asciutto per cambiarsi. Le passai una maglietta marinara a strisce orizzontali rosse e blu. Quando, andandosene, se la tolse, la ripiegai con cura, e in una scatola di cartone quella maglietta è ancora oggi piegata come allora.
La sto annoiando, vero? Perché ho l’impressione che lei abbia già intuito il resto di questa storia. Lei sa che le nostre strade si erano ormai divise, e per sempre.
Ma non era proprio tutto finito. Dentro di me era rimasto qualcosa di lei, qualcosa di prezioso che nessuno poteva portarmi via, un angelo biondo che si faceva sempre trovare quando lo cercavo, per raccontargli le cose di tutti i giorni, come era abitudine tra di noi.
Alla fine degli studi il servizio militare. Sottotenente in una caserma di Milano avevo tutto il tempo per riflettere su me stesso, sulla mia vita, sulle cose perdute e su quelle che, ero convinto, non mi avrebbero mai appartenuto. La mia autostima in quel periodo aveva raggiunto il minimo storico, complici la timidezza del carattere e quella ormai vecchia presenza possessiva e prepotente della mamma che aveva pesantemente condizionato la mia adolescenza e non solo quella.
Ricordo che un giorno, ero ufficiale di picchetto, mi trovai a estrarre dalla fondina, guardare e accarezzare a lungo la mia Beretta di ordinanza. Un’altra volta scoprii con interesse sul Corriere, nella pagina della cronaca dove si parlava del suicidio di un ingegnere, la ricetta per morire in un modo semplice, incruento e indolore. Vai in farmacia, compri una bottiglietta di etere etilico e del cotone idrofilo. Prendi poi un sacchetto di plastica del supermercato e un elastico robusto. Ti siedi a terra con le spalle appoggiate al muro, introduci la testa nel sacchetto e ci infili sopra l’elastico, all’altezza del collo, tenendolo ben teso con il pollice della mano sinistra, in modo da lasciarvi penetrare l’aria. Poi con la mano destra apri la boccetta di etere, la svuoti sul batuffolo di cotone e spingi questo sotto le narici, respirando profondamente. Quando ti addormenterai la mano sinistra non riuscirà più a tendere l’elastico e tutto sarà finito.
L’ho disturbata? Capisco. Ma programmare un suicidio nei minimi dettagli tecnici, mi creda, è il modo migliore per esorcizzarlo. Sono convinto che chi ha intenzione davvero di compiere l’ultimo gesto non abbia normalmente né la voglia né il tempo di pensarci troppo. Comunque l’angelo buono dentro di me non se ne era mai andato e sicuramente vigilava.
Terminato il servizio militare mi tuffai con una buona dose di grinta nella vita sociale: il lavoro, le esperienze internazionali, i primi successi, il matrimonio, due figli meravigliosi accompagnati con amore fino alla laurea e al battesimo professionale.
Poi, qualche settimana fa, inaspettato, il testacoda. L’ho definito così.
Deve sapere che nel periodo della mia educazione sentimentale, quella che le ho dipinto poco fa, avevo l’abitudine di raccontarmi in un diario, in modo ingenuo, schietto, dettagliato. Dei miei incontri con Fiammetta mettevo in risalto tutti gli aspetti, fin nei minimi particolari: il modo con cui mi guardava e sorrideva, le parole che mi diceva, le canzoni che si cantavano insieme, desideri, paure, emozioni, tutte le luci, le ombre e i sapori di una passeggiata in bicicletta sotto il faro della luna … Questo diario è rimasto chiuso per decenni nella scatola di cartone insieme alla maglietta marinara a strisce rosse e blu. Non l’ho mai più aperto. Fino a qualche settimana fa. L’avvicinarsi di quell’ anniversario particolare, che non poteva sfuggirmi, mi ha indotto ad aprirlo e rileggerlo.
Mi chiede perché. Non so fornirle un motivo. O meglio, non uno solo. Mi riesce difficile spiegare perché abbia voluto far riaffiorare improvvisamente episodi ormai perduti nel tempo, emozioni incontaminate, in parte dimenticate, ma proprio per questo riemerse in modo drammatico: tenerezza, nostalgia, rimpianto, e poi rabbia ed angoscia … Ero riuscito a confezionarmi una miscela emotiva dirompente. E alla fine ha prevalso l’angoscia: la consapevolezza dolorosa dell’ ineluttabile morte delle cose belle e incompiute che non ci appartengono più e che non possono più ritornare. Uno straziante senso di impotenza di fronte alla necessità di correre incontro a quelle due creature stupende, nella loro stradina segreta, e aiutare quel ragazzino intimidito dai suoi sentimenti a trovare il coraggio di dire quelle parole che non gli riuscì di dire mai. Quelle due parole che gli hanno strangolato il cuore, come canta il poeta, per tutta la vita.
Il mio racconto si ferma qui, caro amico, posso chiamarla così? Si ferma qui, proprio qui e in questo momento, ora che il lago increspa e si fa sera, ora che giunge dolce il vespro di Settembre che ubriaca di malinconia, proprio come quella sera …
Vedo che vuol restare anche lei ad aspettarlo. Mentre parlavo non ha mai tolto lo sguardo dalla sua veletta, nonostante mi sembrasse incuriosito, perfino interessato. Ho avuto però l’impressione, andando avanti nel racconto, che lei conoscesse già qualcosa di questa storia. O tutto, chissà ... Forse non è poi così vero che non ci siamo incrociati mai.
Fra poco recupererà la lenza e metterà ordine nel suo zainetto. Poi dovrà girarsi verso di me e ci guarderemo finalmente negli occhi, così potrò rispondere alla sua ultima domanda, quella che non mi ha ancora voluto fare . -
Allora il pescatore appoggiò la canna sul muretto, abbandonò il galleggiante al suo destino e si voltò verso di me :
- Sì. Ho infatti una domanda da farle, caro amico, ma non è quella che lei si aspetta. Riguarda il suo diario. Vorrei sapere se si è chiesto perché lo ha abbandonato in quella scatola di cartone per quasi cinquant’anni, probabilmente in cantina, tra le cose che non servono più, perché non ha mai sentito il desiderio di riprenderlo in mano, rileggerne qualche passo, rivivere nella loro spontaneità quei momenti di tenero amore che Fiammetta le aveva donato, perché Fiammetta l’ha amata davvero e l’ha amata tanto, tanto quanto solo una donna sa amare, quando ama, fino al punto di accettare di perderla.
Ma lei non se ne è mai accorto, tanto era preso da sé stesso, dalla commiserazione di sé stesso, della sua infelicità famigliare, del suo immenso amore incompiuto, della sua incapacità di esprimerlo, delle parole che avrebbe voluto dire ma che non ha mai saputo dire, delle cose che avrebbe voluto fare ma che non è mai riuscito a fare.
Lei ha poi dimenticato negli anni l’esistenza di quel diario, così come ha dimenticato tutto quello che Fiammetta le aveva donato senza chiederle mai nulla, così preso com’era dalla sua vita sociale, come l’ha chiamata poco fa, dal suo lavoro, dai suoi successi e dall’orgoglio di avere accompagnato con amore ( sicuro che fosse amore? ) due figli meravigliosi ( ci mancherebbe altro, sono suoi e li ha cresciuti lei ) verso la loro vita sociale.
Amico mio, posso darle del tu?
Bene. Oggi tu hai evitato, e non a caso, di raccontarmi un episodio decisivo della vostra storia che hai rivissuto intensamente ( con il cuore di ieri ma con la testa di oggi ) sulle pagine del tuo diario. Hai evitato di parlarne perché tu hai sempre vissuto male le tue debolezze, gli insuccessi e i fatti della tua vita dove ti sei riconosciuto colpevole di qualcosa ( come in questo episodio ma, questa volta, a torto ). Piuttosto che pensare a custodire con cura e gratitudine dentro di te le cose preziose che la vita ti ha donato, e non sono state poche, hai spesso preferito dedicare il tuo tempo a crogiolarti in angosce infantili per ogni sconfitta, vera o presunta che fosse, da dimenticare poi al più presto. Quella sera in cui vi salutaste, dopo qualche esitazione, nella stradina segreta, non fu il vostro ultimo, tenero incontro. Questo ebbe luogo tre mesi più tardi, a Milano.
Eri stato invitato da Fiammetta alla festa per il compleanno di un’amica, a casa di quest’ultima, dove i partecipanti erano tutti ragazzi più grandi di te e lei, con i suoi splendidi diciannove anni, la più desiderabile fra tutte le presenti. Quella sera lei stette sempre accanto a te, parlando con te, giocando con te, ballando con te e solo con te, per tutta la sera.
A metà serata Fiammetta colse due delle rose rosse che ornavano la torta di compleanno e levando con le labbra dai loro gambi le ultime tracce di crema ne infilò una nei suoi capelli e l’altra nel bavero della tua giacca. Quella rosa era conservata nella scatola di cartone insieme al diario e alla maglietta marinara. Quando l’hai trovata, cercando il diario, non hai capito cosa fosse e da dove arrivasse.
Come ballerino non valevi molto, avevi imparato qualcosa da poco tempo, con tua cognata che ti faceva da insegnante, ma lei ballò abbracciata a te per tutta la sera, con gli amici che vi avevano allora soprannominato gli instancabili. Tu tenevi appoggiata la tua testa alla sua che a sua volta era posata sulla tua spalla, mentre le vostre mani si stringevano e le dita, intrecciandosi, si accarezzarono instancabili per tutta la sera.
Tu non hai mai voluto sapere che quella sera Fiammetta ti aveva dichiarato il suo amore, il suo amore per te. E non poteva fare di più, mentre tu ti sentivi impreparato a seguirla, ti faceva paura. La vostra tenerissima storia d’amore era destinata a finire così, e non poteva finire in un modo più dolce, proprio nel momento più intenso e più bello, in quella sera di Novembre, a Milano.
Ma non è affatto finita e tu lo sai.
Ciao Valerio, uomo fortunato. Ora devo andare. Vedi di proteggere il tuo angelo dal caschetto biondo, ancora presente nonostante la tua ingratitudine, con l’affetto gioioso che merita e con cui sicuramente Fiammetta ti ricambierebbe ancora oggi e ti ricambierà per sempre nel suo cuore.
Sai una cosa ? ... Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare. -
Rimasto solo Valerio si sedette sul muretto, le gambe penzoloni nel vuoto e lo sguardo perso nell’orizzonte. Il dialogo con il pescatore rieccheggiava nella sua mente, parola per parola, con intensità crescente, mentre le acque del lago avevano preso ad accompagnare con odori intensi e suoni delicati le ultime parole : “ Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare “.
Ciao Valerio, uomo fortunato. Ora devo andare. Vedi di proteggere il tuo angelo dal caschetto biondo, ancora presente nonostante la tua ingratitudine, con l’affetto gioioso che merita e con cui sicuramente Fiammetta ti ricambierebbe ancora oggi e ti ricambierà per sempre nel suo cuore.
Sai una cosa ? ... Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare. -
Rimasto solo Valerio si sedette sul muretto, le gambe penzoloni nel vuoto e lo sguardo perso nell’orizzonte. Il dialogo con il pescatore rieccheggiava nella sua mente, parola per parola, con intensità crescente, mentre le acque del lago avevano preso ad accompagnare con odori intensi e suoni delicati le ultime parole : “ Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare “.
Si rendeva conto di essersi impantanato nell’angoscia dei ricordi, nei quali molto forte era stata la tentazione, che l’aveva accompagnato quel giorno fino al molo, di lasciarsi affogare. E sul molo aveva atteso inutilmente dal pescatore la domanda cui aveva pensato di dover rispondere.
“ Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare “ … Queste parole gli gonfiavano il cuore e le tempie. Valerio abbandonò il molo e tornò a casa. Si sedette alla scrivania e incominciò a trascrivere il dialogo della giornata in qualcosa che veniva ad assomigliare sempre di più a un racconto allo stesso tempo drammatico e dolcemente romantico.
Dopo qualche giorno si mise a cercare l'unico indirizzo facilmente rintracciabile, quello della mamma di Fiammetta. Lo trovò. Prese carta e penna e le scrisse una breve lettera, alla quale allegò diario e racconto, pregandola di consegnare il tutto a sua figlia, personalmente. Voleva essere certo che qualcosa di lui e del suo amore per lei ritrovasse la strada dei suoi occhi e del suo cuore. Non aveva bisogno di altro. Non poteva desiderare di più. Era certo che la mamma, che a suo tempo gli aveva voluto un gran bene, lo avrebbe accontentato.
“ Ci vuole un altro testacoda se vuoi tornare a volare “ … Queste parole gli gonfiavano il cuore e le tempie. Valerio abbandonò il molo e tornò a casa. Si sedette alla scrivania e incominciò a trascrivere il dialogo della giornata in qualcosa che veniva ad assomigliare sempre di più a un racconto allo stesso tempo drammatico e dolcemente romantico.
Dopo qualche giorno si mise a cercare l'unico indirizzo facilmente rintracciabile, quello della mamma di Fiammetta. Lo trovò. Prese carta e penna e le scrisse una breve lettera, alla quale allegò diario e racconto, pregandola di consegnare il tutto a sua figlia, personalmente. Voleva essere certo che qualcosa di lui e del suo amore per lei ritrovasse la strada dei suoi occhi e del suo cuore. Non aveva bisogno di altro. Non poteva desiderare di più. Era certo che la mamma, che a suo tempo gli aveva voluto un gran bene, lo avrebbe accontentato.
La mattina del 24 Settembre Valerio spedisce la lettera alla mamma di Fiammetta.
Il giorno dopo, Giovedì 25 Settembre, alle 18.47, squilla il suo cellulare:
- Valerio ? Ciao, sono Fiammetta ...
Erano trascorsi quarantacinque anni, due mesi e undici giorni dall’ultima volta che Valerio e Fiammetta si erano incontrati.
Erano trascorsi quarantacinque anni, due mesi e undici giorni dall’ultima volta che Valerio e Fiammetta si erano incontrati.
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